La giungla Tucholsky. Per una poetica del fallimento

Visto al Teatro della Contraddizione di Milano

Café Berlin – ispirato al fallimento di Kurt Tucholski
di e diretto da Marco Maria Linzi
musica composta Massimo Airoldi e Marco Maria Linzi
con Massimo Airoldi, Stefania Apuzzo, Micaela Brignone, Fabio Brusadin, Silvia Camellini, Sabrina Faroldi, Silvia romito, Stefano Slocovich, Stefano Tornese, Jacopo Ferrari Trecate, Eugenio Vaccaro, Giacomo Valentini, Nazaré Xavier, Giorgia Zaffanelli
produzione TDC e Teatro dell'Elfo

Lo scrittore, giornalista e poeta Kurt Tucholsky è la Musa ispiratrice dello spettacolo Cafè Berlin di Marco Maria Linzi. Tucholsky è caratterizzato dalla consapevolezza della totale inefficacia della sua attività letteraria, che tuttavia portò comunque avanti, nella consapevolezza che ogni suo atto sarebbe risultato in sé fallimentare. La poetica di Tucholsky è pertanto interpretata da Linzi come un’estetica del fallimento, analoga a quella sviluppata da autori come Beckett e Musil, che insistevano molto sul bisogno di tentare di esprimere la realtà per sua natura inesprimibile. Il teatro risulta essere in questo percorso come la portatrice e l’espressione di utopie irrealizzabili.

Ma cosa succede all’interno del Cafè Berlin? Di fatto, assolutamente niente. Lo spettacolo è per volontà di Linzi senza trama e messaggio, addirittura senza luogo. Il cabaret del bordello della Berlino in cui gli spettatori sono catapultati non è, infatti, uno spazio fisico, ma una pura suggestione poetica: i fatti raccontati possono essersi verificati anche in altre città, o possono non essere accaduti affatto. Di qualcosa comunque si fa esperienza. Si entra in relazione con la «giungla dell’anima» di Tucholsky, che viene frammentato in una miriade di personaggi. Possiamo distinguere, anzitutto, lo sdoppiamento del poeta in una parte cinica e in una ingenua o infantile. L’una sviluppa per lo più massime e ragionamenti filosofici sull’assurdità dell’esistenza e deride la condotta dell’uomo medio. L’altra ha invece ha fiducia nel genere umano e si abbandona spesso a slanci lirici, come quelli che paragonano l’umanità a una «fiera d’agosto», in cui molte belle cose possono accadere. Ma troviamo anche Tuchlosky frammentato nei personaggi che descrisse nelle sue opere, i quali vengono a loro volta guardati con derisione e disprezzo dalla parte cinica, o con amore e partecipazione da quella infantile.

L’impressione di fondo che si ha nell’attraversare lo spettacolo è quella del caos. Gli spettatori sono sottoposti a continui stimoli tanto dagli slanci lirici o filosofici di Tucholsky e dalle storie dei suoi personaggi, quanto dalla musica dal vivo, che accompagna il movimento degli attori e addirittura ne condiziona l’andamento. Accade spesso, del resto, che la parte bambina del poeta interrompa con un suono di tromba una narrazione o un’azione corale, soprattutto quando è sul punto di diventare particolarmente violenta. Ad accrescere il senso di confusione è poi il fatto che lo spettatore può decidere di osservare lo spettacolo o seduto su tavoli posti in mezzo al palco, o ai margini dello spazio, ricavando così una concezione del lavoro totalmente diversa rispetto a quella degli altri. E infine, la recitazione caricata, rapida, enfatica di tutti gli attori impedisce la creazione di momenti di silenzio o raccoglimento, in cui è possibile fermarsi a riflettere su quanto si ascolta. Questo disorientamento esprime bene che l’anima di Tucholsky è appunto una giungla selvaggia e afosa, in cui non è possibile trovare quiete.

La metafora può tuttavia essere spinta oltre. Se l’anima di Tucholsky è una giungla, allora al suo interno si incontreranno animali e vegetali fantastici, alcuni dei quali possono metterci in pericolo, mentre altri possono stimolare la nostra immaginazione e la nostra carica vitale. Tra questi ultimi, si trovano soprattutto le utopie che sono presentate dalla parte infantile di Tucholsky, come l’aspirazione ad entrare in una vera relazione intima con un’altra anima, che sono destinate di per sé al fallimento. Cercare l’intimità è appunto una prospettiva utopica, dato che un “io” sarà sempre distinto da un altro “tu” e non potrà mai fondersi realmente con esso. E tuttavia, l’atto di provare e fallire avrà almeno il risultato di farci uscire dal guscio delle nostre abitudini, quindi di ampliare il nostro orizzonte mentale e immaginativo. Il fallimento e l’utopia accrescono le nostre risorse vitali, in un mondo che pare essere senza senso.

Il poeta Tucholsky propone, in sostanza, di provare sinceramente a fallire. È meglio tentare qualcosa di nobile e impossibile, piuttosto che ciò che è ignobile e impossibile, perché abbiamo solo da guadagnare tramite la prima scelta. Se Tucholsky potesse prendere la parola, direbbe forse qualcosa del genere: «Sono entrato nel mondo, ho visto meraviglie e atrocità, ho lottato per un’esistenza migliore, ho amato e odiato gli uomini, non ho capito nulla, infine sono morto solo. Ma ho fatto tutto con questo con la massima sincerità e passione di cui disponeva l’anima mia».