«Animali risibili». Leopardi secondo Carullo-Minasi
De revolutionibus - Sulla miseria del genere umano
da due operette di Giacomo Leopardi: Il Copernico e Galantuomo e Mondo
Spettacolo Vincitore Teatri del Sacro 2015
di e con Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi  
 

Scene e costumi Cinzia Muscolino
Scenotecnica Pierino Botto
Disegno luci Roberto Bonaventura
Assistente alla regia Veronica Zito
Foto Gianmarco Vetrano

Visto il 22 febbraio 2018 al Teatro Sanbapolis di Trento, all'interno del festival Teatro della Meraviglia 2018
di Enrico Piergiacomi

 

Il senso comune crede che il riso nasca dall’esperienza della gioia e della felicità. Si ride tanto più forte e con calore, quanto più ci si sente appagati, realizzati e compiuti. Diversi poeti e filosofi hanno però obiettato che, in realtà, il nesso va rigorosamente rovesciato. Il riso scoppia nel momento in cui si ha esperienza di qualcosa di incompiuto, come ad esempio quando si ascolta un bambino che parla balbettando, oppure quando si osserva un piano ben congegnato che crolla per un errore stupido e involontario – le commedie teatrali sono colme di vicende e meccanismi di questo genere. Secondo le prospettive più estreme, si può addirittura sostenere che il riso puro nasce dallo spettacolo dell’infelicità. Quando non c’è nulla in cui sperare e si diventa consapevoli della vanità di ogni cosa, allora scatta la risata, quale reazione di distanziazione contro la sofferenza estrema.
Tra i poeti che esprimono questa tesi radicale, va senza dubbio annoverato il Leopardi delle Operette morali. Anticipando di un secolo Bataille e Beckett, che in modi diversi mostrano che non esiste niente di più comico della degradazione e dell’infelicità, queste composizioni letterarie intendono, come dichiara il poeta in un’osservazione del suo Zibaldone, «portar la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia», compresa la «miseria umana» (27 febbraio 1827, p. 1393). O ancora, per usare le parole di Eleandro del Dialogo di Timandro ed Eleandro, ossia di uno dei tanti “doppi” di Leopardi, hanno lo scopo di esprimere «verità dure e triste (…) per consolarmene col riso».
Quanto ho espresso con testi alla mano, oltre che con parole pesanti e ineleganti, il duo artistico di Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi riesce a comunicarlo con evidenza, bellezza e sincerità a teatro, nel breve tempo di un’ora. Il loro spettacolo De revolutionibus – Sulla miseria del genere umano mette in scena, infatti, due delle Operette morali, rispettivamente Il Copernico e il dialogo Galantuomo e Mondo, sottolineando la loro profonda poesia e la loro grande comicità. E lo fanno recitando l’originale leopardiano senza grandi tagli e stravolgimenti, ossia introducendo solo i cambiamenti necessari per trasformare un testo letterario in una partitura drammatica. Tra questi, va segnalato l’uso di una pedana componibile e di pochi arredi di scena (un tavolino, alcune pertiche, ecc.), che Leopardi non aveva ovviamente contemplato e viene usato dai due artisti per costruire dei godibilissimi giochi scenici. In secondo luogo, Carullo-Minasi scelgono di aggiungere al testo una dimensione “meta-teatrale”. Quando recitano, essi commentano quanto vanno dicendo, o si spartiscono il personaggio da interpretare (se il Sole o Copernico, se il Mondo o il Galantuomo) giocando a morra cinese. Ciò fa sì che la carica comica delle operette leopardiane venga intensificata, fino al punto da diventare incontrovertibile.
Carullo-Minasi si scagliano, dunque, contro la falsa vulgata di un Leopardi depresso o privo di spirito e mostrano che la sua visione dell’esistenza non è banalmente sconsolata. La Musa di Leopardi è buffa e atroce insieme, come il ghigno stampato sul teschio nudo di un cadavere.
Certamente, la scelta di mettere insieme solo due delle Operette morali non è un’operazione innocua e implica un’adesione ad alcune precise idee interpretative. Una è la volontà di sottolineare come in Leopardi non sfugga alla satira nemmeno un grande mito del suo come del nostro tempo: il progresso. Con la messa in scena de Il Copernico, Carullo e Minasi sottolineano come la scienza ridimensioni la credenza umana di essere al centro del cosmo. Il progresso scientifico mostra la nostra ignoranza e insignificanza, le quali ci rendono a loro volta infelici e sperduti: dunque, secondo il nesso infelicità = riso, grandemente ridicoli. Con Galantuomo e Mondo, Carullo e Minasi si prendono invece gioco delle false illusioni delle “anime belle” che credono che la civiltà sia fatta per tutelare la virtù, la poesia e la conoscenza, quando in realtà essa è solo un grande apparato che tutela i servi e gli arrivisti. Il progresso civile implica un avanzamento nella violenza e nel vizio, oltre che nel dominio dei mediocri che riescono a conquistare il potere.
Una seconda idea-guida del De revolutionibus è, poi, che Il Copernico e Galantuomo e Mondo rappresentano due tipologie diverse di operette. L’una è un’«operetta infelice, e per questo morale», l’altra una «operetta immorale e per questo felice». Secondo Carullo-Minasi, dunque, Leopardi sarebbe un poeta che denuncia il destino comicamente tragico dell’umanità. Nel teatro della vita, tutto è rovesciato. I malvagi vengono premiati e stimati. Gli onesti – inclusi artisti, filosofi, scienziati – sono coperti di sputi e disprezzo.
Sulla prima idea interpretativa mi mostro assolutamente d’accordo e, se avessi tempo/spazio, potrei fornire evidenze testuali a suo sostegno. Sulla seconda, con la relativa opposizione netta tra l’infelicità dovuta all’essere morale e la felicità dispensata dalla condotta immorale, ci sarebbe, invece, un po’ da discutere. In Leopardi, sussiste la ferma credenza che l’umanità in generale è infelice («Figliuola mia, tutte le anime degli uomini, come io ti diceva, sono assegnate in preda all’infelicità, senza mia colpa», dice esplicitamente la Natura nel Dialogo della natura e di un’anima). Le persone immorali non diventano allora felici nella poetica leopardiana. Al massimo, esse raggiungono una sorta di “stato neutro” tra felicità e infelicità, che possono avere le bestie che non hanno cognizione della propria miseria, o coloro che per un momento dimenticano l’infinita vanità del tutto, per esempio i pazzi, gli ubriachi e gli addormentati. L’immoralità funge, insomma, da narcotico contro l’essere infelici, non già da antidoto e soluzione.
La mia riserva va interpretata, comunque, come un dissenso su una questione di dettaglio. Essa non intende minare, insomma, l’interpretazione complessiva di Carullo-Minasi, ma solo invitare ad approfondire le questioni sollevate da un lavoro già estremamente bello e lucido. Per il resto, il De revolutionibus ha il merito di sottolineare all’estremo un pensiero che Leopardi formula nell’operetta Elogio degli uccelli: quello che l’essere umano sia l’unico «animale risibile», in un duplice senso. Da un lato, è tale perché è il solo animale capace di riso. Dall’altro, è risibile perché è l’unico animale degno di riso. Bestie e dèi (se esistono) suscitano passioni come pietà o ammirazione, non già il ridicolo. Le une non sono coscienti della propria miseria, gli altri sono beati per natura e sfuggono all’infelicità che li esporrebbe alla risata. In tal senso, l’essere umano è l’unico animale che, al tempo stesso, è capace di ridere e può ridere di se stesso.
In chiusura di analisi, va infine segnalato un’altra originale idea che può emergere col De revolutionibus e che problematizza tutta la poetica leopardiana. Lo spettacolo si conclude facendo ascoltare la canzone Il sipario di Simone Cristicchi, che descrive l’amarezza che si prova quando si chiude definitivamente un teatro, lasciandoci al cospetto della nuda e banale realtà. Ad ascoltare i suoi versi, lo spettatore non riesce a ridere di questa situazione infelice. Al contrario, cade nel silenzio, o meglio in un pianto muto. Questa esperienza allude al fatto che l’infelicità descritta da Leopardi, Bataille, Beckett appare comica in virtù della poesia e dell’arte del teatro, che riescono a far ridere di qualcosa di cui normalmente non rideremmo. In assenza della bellezza che esse evocano, rimangono solo debolezza e prostrazione.
Il teatro risulta essere, così, ciò che impedisce che il riso disperato si tramuti nel dolore del silenzio. Sebbene non ci possa salvare dalla miseria, esso va tutelato almeno perché costituisce, forse, l’unico tentativo paradossale di realizzare un’utopia e un supremo atto di eroismo umano, inaccessibile agli animali e superflua per gli dèi: quello di bearsi dell’infelicità, di tollerare l’intollerabile.