Ascoltare la sincerità, non l’interesse: una lezione (d)al Lear di Michele Placido

Ascoltare la sincerità, non l’interesse: una lezione (d)al Lear di Michele Placidodi Ivan Ferigo

Fotografia di Giuseppe Facchini
Pergine, Teatro Comunale, 27 gennaio 2015

«Dobbiamo dire quello che sentiamo, non quello che conviene» dice Edgar nell’epilogo

Misurarsi con Shakespeare non è certo una novità per Michele Placido, attore protagonista e regista – in coppia con Francesco Manetti – del Re Lear andato in scena martedì 27 gennaio al Teatro Comunale di Pergine. I due registi e la folta compagnia hanno dato vita ad una coinvolgente riscrittura in chiave post-moderna della tragedia. Placido, insieme a Marica Gungui, ha curato anche la traduzione: il linguaggio shakespeariano risulta efficacemente modernizzato, talvolta banalizzato ma senza perdere la poesia del testo. Capolavoro abissale e universale, e per questo sempre vibrante e attuale, è forse il dramma più cupo di Shakespeare, in quanto presenta il crollo di un mondo. I registi però vi vedono anche una (faticosa) rinascita dalle macerie.

Già la scenografia di Carmelo Giammello rende l’idea di un mondo “fuor di sesto”: una gigantesca corona rovesciata (che funge anche da scala, con sottili implicazioni simboliche) in cui sono incastonati volti di potenti, rovine di emblemi di potere come l’aquila imperiale, il braccio mozzato di una statua, un suolo polveroso in pietra. I personaggi agiscono in questo drammatico contesto, creato dalla sconsiderata decisione iniziale del sovrano. Re Lear, ormai vecchio e con una fluente chioma bianca, decide di abdicare e dividere il regno tra le tre figlie e in pace «gattonare verso la morte». Quasi fosse un bambino. E come un bambino Lear pretende l’amore delle figlie: a quella che a parole dimostrerà di amarlo di più, sarà assegnata la terra più estesa. Il re però cade nel tragico equivoco di scambiare per amore l’adulazione di Goneril e Regan e per durezza di cuore la sincerità di Cordelia. Scena di valore portante, è la sola interpretata in modo classico. Nel proseguo, lo spettacolo fa ampio ricorso ad espedienti scenici moderni, alcuni efficaci ed attinenti, altri più discutibili. C’è in realtà anche un inserimento antico: un brano tratto del Libro della Sapienza, scandito da una voce fuori campo, che riflette come anche il re sia «mortale e uomo come tutti gli altri». L’inserto precede lo scatenarsi della tempesta, momento in cui Lear spogliato dall’aura di sovrano ritorna uomo tra gli uomini: aggiunta dunque convincente. Al contrario, disturba un poco, perché fuori contesto, la voce da presa diretta che comunica il crollo delle Torri Gemelle. Il dettato shakespeariano basterebbe da solo a rendere l'incalzare della follia di Lear, senza l'apparente bisogno di doverlo per forza appesantire con il richiamo a fatti ancora ben stampati nella memoria dello spettatore. Nella brughiera il re è sostenuto dal leale servo Kent e dal Matto. Il primo (Francesco Biscione) nel travestimento da uomo umile si arricchisce di accenti di colore («cambierò linguaggio»). Il Matto di Marco Brenno Placido è un giullare moderno, dall’abbigliamento giovanile e con il pallino per il rap; il personaggio però non decolla perché non sfrutta la potenza demistificatoria che il testo gli offre. Con la trama principale si intreccia la vicenda di Gloucester. Il vecchio conte è interpretato da un Gigi Angelillo vibrante nel renderne la sofferenza, prima per gli inganni orditi da Edmund e poi per l’accecamento con effetti splatter subito dal Duca di Cornovaglia (un Alessandro Parise da promuovere per timbro e pulizia della voce). Edmund (Giulio Forges Davanzati) è un villain che cattura soprattutto nel monologo d’esordio, che conduce con l’abilità istrionica di uno Iago, cercando anche la complicità del pubblico (a cui chiede di completare la battuta machiavellica «il fine giustifica i mezzi»). Totalmente agli antipodi sta Edgar, eccellentemente incarnato da Francesco Bonomo: intellettuale-nerd impacciato e impaurito all’inizio, evolve radicalmente quando si denuda assumendo l’aspetto di un pazzo medicante. Da questo momento è molto profondo e vero, soprattutto quando guida il padre cieco per mezzo di un bastone: la scena del tentato suicidio di Gloucester dalla scogliera di Dover è la più intensa di tutto lo spettacolo. Quando le due storie si congiungono, Goneril (Margherita Di Rauso) e Regan (Linda Gennari) si disputano l’amore esplicitamente erotico dell’intrigante Edmund: modernissimi completi sadomaso in pelle le rendono ancora più aggressive. Le due sorelle sono due facce della malvagità per proprio tornaconto: cattiva tout court la prima, più gatta morta la seconda. Esatto opposto è la sorella minore. Troppo tradizionale nella prima scena, la Cordelia di Federica Vincenti emerge nel secondo tempo soprattutto grazie a due cristalline perle canore prese in prestito da Jeff Buckley: Hallelujah accompagna il tenero abbraccio al padre addormentato su una sedia a rotelle, Corpus Christi Carol precede il sacrificio per impiccagione (compiuto da soldati con maschere antigas). Cordelia morta è sdraiata su un tavolo circondata da tutti i personaggi, mentre Lear recita il suo ultimo monologo a distanza e con un certo distacco, quando invece ci si attenderebbe maggiore prossimità e dolore nei confronti della figlia prediletta strappata alla vita. Michele Placido percorre con tutta l’esperienza necessaria ogni piega del carattere di Lear (dall’ira alla follia, dallo stupore alla pietà), ma dà l’impressione di non completarne il cammino di conoscenza. Muore senza esser diventato saggio, senza aver assaporato fino in fondo l’amore vero e sincero di Cordelia. Se i registi intendono fare del Re Lear una tragedia dell’amore in tutte le sue sfaccettature, quello del protagonista è un amore incompleto. Bisogna aspettare che prenda la parola Edgar per chiudere il cerchio, gettando un barlume di speranza in un mondo che va in macerie. L'aggiunta testuale finale, che racchiude il senso profondo della rilettura, è inevitabilmente arbitraria ma credibile e illuminante: «Dobbiamo dire quello che sentiamo, non quello che conviene». Parole che rimandano direttamente alla prima scena, suggerendo che, in un mondo dove i più agiscono per convenienza, la sincerità è il valore che fa grande l’uomo.