Brutalità e sogno. Il corpo dell’attore in "Made in ILVA"

di Enrico Piergiacomi 

visto al LIV Performing Arts Centre di Bologna

Regia Anna Dora Dorno
Con Nicola Pianzola
Canti originali e voce dal vivo Anna Dora Dorno
Musiche Riccardo Nanni
Oggetti di scena Nicoletta Casali
Scene e disegno luci Anna Dora Dorno
Video Nicola Pianzola
Produzione Instabili Vaganti con il sostegno di Spazio OFF di Trento

Composizione drammaturgica originale basata sugli scritti e le testimonianze degli operai dell’ILVA di Taranto intervistati dalla compagnia.

Quando un’opera teatrale nasce per rispondere a una problematica politica e viene analizzata anni dopo rispetto alla sua genesi, si aprono almeno due piani di lettura: quello civile e quello poetico. Il primo livello è più spesso, all’inizio, di maggior impatto del secondo. Se ad esempio uno spettacolo nasce per denunciare una determinata stortura sociale, i contemporanei colgono con nettezza e nell’immediato il messaggio civile che viene comunicato, mentre avvertono in forma minore le sue qualità artistiche, che potrebbero anzi essere considerate come un mezzo per il fine politico. Per il piano poetico si può ravvisare, di contro, un rapporto inverso. Quanto più passa il tempo, tanto più uno spettacolo risulta interessante per il nuovo pubblico appunto per le sue qualità poetiche e tanto più il suo peso politico o la sua efficacia politica si affievolisce – anche perché il problema di partenza potrebbe intanto essersi risolto, oppure essere diventato meno urgente. Ciò vale, naturalmente, a patto che il lavoro avesse anche un valore artistico. In caso contrario, esso sparirebbe semplicemente dalla circolazione, inghiottito dallo scorrere del tempo che, intanto, ha portato alla genesi di alcuni nuovi lavori teatrali e all’insorgere di altre questioni civili.

Made in ILVA della compagnia Instabili Vaganti è uno di quegli spettacoli che, coll’invecchiare, perde la propria efficacia civile, ma diventa assai interessante dalla prospettiva poetica. Esso debutta nel 2012 per denunciare, come si evince già dal titolo, i danni che la fabbrica ILVA di Taranto arreca ancora adesso all’ambiente / alla cittadinanza tarantina e le numerose morti degli operai al lavoro. All’epoca, il lavoro sensibilizzava alla questione, prima ancora che divenisse nota e destasse il relativo “scandalo”. E certo lo spettacolo continua ancora ad assolvere una funzione civile importante. Dato che gli Instabili Vaganti costituiscono, infatti, una compagnia che gira molto all’estero, Made in ILVA giova alla comunità mondiale nel far conoscere fuori dall’Italia un problema che molti cittadini europei potrebbero ancora ignorare. Tuttavia, oggi che la questione ILVA è risaputa ed è divenuta oggetto di dibattito pubblico, lo spettacolo risulta appunto meno d’impatto.
Sul piano poetico, invece, Made in ILVA risulta essere uno spettacolo di intensa bellezza e che andrebbe visto con attenzione. In questo breve scritto, mi propongo di approfondire lo spunto forse più interessante e promettente.
Made in ILVA riflette sulla lotta dell’essere umano contro un processo crescente di «capillare brutalizzazione», il cui culmine è costituito dalla riduzione di tutti gli individui a macchine che vivono per produrre, producono per sopravvivere, sopravvivono per continuare a produrre. Guardando pertanto a ciò che accade nell’ILVA da una prospettiva più ampia, lo spettacolo compie un processo di induzione dal particolare all’universale. Quanto succede nella fabbrica tarantina è un simbolo della meccanizzazione degli esseri umani che si sta diffondendo a livello globale.
Tale idea poetica è realizzata sulla scena attraverso la rappresentazione di un operaio dell’ILVA che si trova immerso, appunto, in questo processo di «capillare brutalizzazione» e tenta, fallendo, di opporvisi. L’attore che lo interpreta (Nicola Pianzola) cerca di suggerire, muovendosi dentro e fuori da una grossa gabbia di metallo posta al centro del palcoscenico a quale livello di brutalità può scadere un individuo posto in un contesto in cui la produzione non si può fermare. L’operaio dell’ILVA è incitato, infatti, a lavorare insistentemente, a ripetere gli stessi gesti senza significato e secondo un’identica scansione del tempo, a sopportare il freddo delle lamiere, diventando così a sua volta inerte come una macchina e privo di sensibilità come una lastra d’acciaio. A far da contraltare a questo esito disperante sono le parole che l’attore pronuncia durante i suoi movimenti, tratte soprattutto dalle Poesie operaie di Luigi Di Ruscio, che introducono nella vicenda la dimensione onirica. Esse esprimono, ad esempio, il ricordo dei giorni in cui l’operaio ancora non era entrato in fabbrica e poteva gioire interamente del sole / della luce, di cui adesso riesce invece solo occasionalmente a godere, nei rari momenti in cui un raggio di sole si insinua dall’esterno nei reparti produttivi della fabbrica.
Si può constatare, inoltre, un bel paradosso. Lo spettacolo riflette sulla brutale meccanizzazione dell’essere umano con un corpo attoriale che imita i processi meccanici. L’attore stesso che attua il processo mimetico appare però essere, così facendo, niente affatto brutalizzato e inerte. I suoi gesti sono elastici, belli e di grande energia. E nei momenti in cui appunto le parole di Luigi Di Ruscio evocano la dimensione onirica, essi si fanno persino delicati. Ciò non deve risultare in sé, a dire il vero, particolarmente strano. È del resto un principio già stabilito in modo chiaro nel cap. 1 della Poetica di Aristotele che ciò che in natura (noi aggiungeremmo: nella società umana meccanizzata) appare brutto o disgustoso diventa con l’imitazione artistica bello e piacevole. Inoltre, le potenzialità estetiche della macchina sono state ampiamente valorizzate dal metodo bio-meccanico di Mejerchol’d, di cui Nicola Pianzola peraltro fa uso. In Made in ILVA, però, il paradosso di un attore che rappresenta piacevolmente gli orrori della meccanizzazione dell’umano allude, forse inconsapevolmente, a qualcosa di più importante. Le macchine non sono in sé mezzi di produzione che brutalizzano gli individui che le usano. Risultano tali solo entro la logica di produzione forsennata entro cui sono localizzate. Se anche loro potessero uscire dal processo involutivo che osserviamo a livello globale, forse potrebbero a loro volta risultare belle e giovevoli, come un attore in uno spettacolo.
Questo spunto deve però essere considerato solo un’aggiunta e un’ipotesi di approfondimento per gli artisti della compagnia Instabili vaganti. Made in ILVA non si chiude, infatti, indicando questa direzione di studio e di vita. A livello poetico, si conclude con la dolorosa constatazione di una «salvezza (…) impossibile», a livello politico con l’invito dello spettatore a non dimenticare gli orrori della fabbrica tarantina. La prospettiva della liberazione della bellezza dalla macchina non più usata per brutalizzare gli esseri umani costituisce, nel migliore degli scenari, un obiettivo che gli attori della compagnia e gli spettatori potrebbero cercare di raggiungere insieme.