"D'umanità l'attore", o l'arte dello spreco

D’UMANITÀ L’ATTORE
(attore-scena-drammaturgia)

progetto in rete di Cantharide e Drama Teatro
in collaborazione con Teatro Patalò
presentato all’interno della V edizione del festival Città e Città del 6-9 giugno 2019

 

di Enrico Piergiacomi

 

D’umanità l’attore di Drama Teatro è un progetto triennale che ha lo scopo di proporre una pratica del teatro che considera l’attore come il centro del processo creativo ed espressivo. La proposta principale consiste, dunque, nel pensarlo come un artista autonomo e propositivo, non un marchingegno banale di una forma spettacolare che è al servizio delle idee già date a priori dal drammaturgo, dal regista o dall’impresario. Tale cambio di paradigma comporta un mutamento decisivo anche sul piano della pratica, oltre che delle intenzioni estetiche. Se infatti è considerato un creatore a tutti gli effetti e non il mero esecutore di una forma già data, all’interno della quale si mette al sicuro da ogni errore e imprevisto, l’attore diventa una figura che fa della sua vulnerabilità espressiva un valore e della scoperta dell’ignoto il suo fine. Un artista del genere lavora così più sulla relazione che sulla composizione formale. La seconda si basa su una forma rigida e che può essere attraversata anche da attori che non si relazionano affatto con gli altri colleghi in scena o col pubblico. La prima apre invece necessariamente al rischio e alla sorpresa. La relazione autentica fa sì, infatti, che le due o più persone che si relazionano si modifichino a vicenda, e che il percorso che fanno insieme prenda di colpo una nuova direzione, più che proseguire quasi meccanicamente su un binario deciso in partenza.
Non è perciò un caso che, in virtù di questo cambio di paradigma estetico, il tema scelto per avviare il triennio del progetto D’umanità l’attore consista in Improvvisazione e lettura. Si tratta di un’associazione a prima vista strana e inusuale. O almeno, questa è l’impressione che necessariamente si ricava restando nel rassicurante (ma anche soffocante) paradigma dell’attore come l’esecutore di una forma. Muovendosi all’interno di questo modello, infatti, “improvvisazione” diventa sinonimo di “arbitrio”. Nei rari momenti in cui l’attore – figlio del dio minore del drammaturgo o del regista – è lasciato nella libertà di improvvisare, si cade nell’equivoco che egli si deve sentire libero di agire a caso, o fare la prima cosa che gli salta in mente. “Lettura” è invece inteso, sempre all’interno di un simile paradigma, come un termine che indica una modalità di esecuzione formale che è semplice, accessibile e a basso costo. In altri termini, essa viene interpretata come una forma spettacolare molto asciutta, che ha poca o nulla dignità artistica. Leggere un testo su di un leggio concentra al massimo la forma e riduce al minimo i movimenti studiati, sicché è un teatro “povero” nel senso deteriore del termine, ossia privo di grandi effetti scenici e del supporto di un pomposo apparato. Da questo punto di vista, quindi, legare improvvisazione e lettura implica sostenere il pensiero che segue. L’attore deve leggere un testo così come l’ha istruito il regista o il drammaturgo, ma può permettersi, in alcuni momenti decisi in partenza, di dare colore e ritmo alle frasi, oppure di fare qualche estemporaneo gesto personale.
Ora, il passaggio al paradigma dell’attore vulnerabile che mira alla relazione mette a soqquadro questa visione quieta e pacificante, sottolineando che i termini della questione sono ben più complessi e labirintici. Ciò apparirà soprattutto evidente con un circostanziato resoconto del pensiero di Claudio Morganti sul concetto di improvvisazione, che è stato in parte sintetizzato durante l’incontro dal titolo Improvvisazione e lettura, tenuto subito dopo la presentazione di Drama Teatro del progetto D’umanità l’attore.
L’artista problematizza la parola “improvvisazione” e propone un’analogia esplicativa del teatro con la musica. Come il musicista che improvvisa è un artista che riscrive all’impronta il pezzo della sua partitura, ossia senza averlo deciso preventivamente ma in un momento che lui stesso si sorprende di trovarsi ad attraversare in modalità improvvisativa, così l’attore che improvvisa è un artista che, a partire da una struttura spettacolare duttile o mai fissata del tutto in ogni suo particolare, compie delle sortite verso l’ignoto. Le modalità pratiche di tale teoria possono essere disparate – dal cercare di re-citare ritmicamente il testo come se lo si leggesse per la prima volta, al modificare il senso e l’andamento di un proprio gesto a partire dalle proposte del partner sulla scena. Tutti questi molti sono però ridotti a uno in ottemperanza a un unico principio estetico. Improvvisare significa crearsi la condizioni per fare sì che composizione ed esecuzione coincidano, non però a seguito di una decisione programmata, bensì quando si “sente” che è giunto il momento e che ogni cosa (testo, ritmo, relazione tra gli attori, ecc.) può essere ricreata da zero, generando così qualcosa di completamente inaspettato. Mi pare sia qui utile citare quanto Morganti già in La grazia non pensa (Cue Press, Imola 2018):
 

Quel che io intendo e auspico è una sottile linea improvvisativa, da praticare in pubblico (come fanno i musicisti), a partire da una rigorosissima scrittura (p. 23).

Perché l’inaspettato accade in un momento in cui non si pensa, non si decide, non si vuole ottenere nulla. È un vuoto, che è anche un taglio, ed è anche una ferita che può contagiare. In realtà il processo che ho provato a raccontare è proprio, io credo, il fondamento dell’improvvisazione (p. 89).

Nell’incontro Improvvisazione e lettura tenutosi a Drama Teatro, tutto ciò viene condensato rinunciando allo sforzo di concettualizzazione. Morganti consegna al pubblico delle buste con dentro alcune definizioni numerate del concetto di “improvvisazione” di musicisti-filosofi e, estraendo di volta in volta un numero, invita il pubblico a focalizzarsi su ciascuna di esse, mentre di sottofondo si ascoltano le registrazioni di alcune melodie suonate in modalità improvvisativa. Ne nasce un labirinto in cui si abdica persino alla pretesa di provare a comprendere che cosa sia l’improvvisazione. Definire ad esempio quest’ultima come la «celebrazione dell’attimo» è in realtà un modo poetico per nascondere l’ignoranza. Nel momento stesso in cui si definisce che cos’è l’improvvisazione, del resto, già si sta programmando che cos’è e come realizzarla, ovvero si sta facendo proprio il contrario esatto dell’improvvisare. Essa è dunque un concetto-limite, che non si può capire del tutto e si può solo afferrare di scorcio. Ogni definizione del termine “improvvisazione” è in sé contraddittoria, sicché si scopre essere un gesto impossibile, una pura utopia.
Un analogo discorso vale per il concetto di “lettura”. Anche qui si osserva, infatti, un positivo rovesciamento del paradigma dell’attore-esecutore di una volontà formale. La “lettura” risulta, nella riflessione di Morganti in bilico tra la ricerca dell’ignoto e la pratica della definizione impossibile, una pratica nobile e onesta, che interpreta positivamente la riduzione al minimo della forma e dell’apparato. Proprio grazie a questa sua asciuttezza, l’attore è nelle condizioni di non preoccuparsi di far funzionare la grande macchina spettacolare e di concentrarsi, invece, sul ricreare estemporaneamente il testo. La conseguenza è, insomma, che la lettura è la modalità che, forse, lascia più occasioni di sortite verso l’ignoto tramite improvvisazione. In questo senso, l’associazione tra i due termini non è affatto incongrua, perché essi non sono che due lati inseparabili di un identico processo estetico. La lettura non è che l’improvvisazione sotto l’aspetto formale. Viceversa, l’improvvisazione coincide con la lettura di una rigorosa scrittura poetica, presa come un trampolino di lancio per generare una nuova creazione: di scoprire un altro testo dentro al testo, un ritmo dentro al ritmo.
Sono seguite all’incontro vero e proprio tre letture: L’uomo in pigiama di Montale da parte dello stesso Morganti; Mariti di Cassavetes con Gianluca Balducci, Francesco Pennacchia, Stefano Vercelli; di Persona di Bergman con Isadora Angelini, Angela Antonini, Elena Galeotti. Lo “spirito” di tutte queste letture discende dai principi-guida che sono stati sintetizzati durante l’incontro con Morganti. Gli attori e le attrici hanno lavorato sulla relazione e non sulla forma, sull’improvvisazione e non sulla ricerca di modulazioni, tonalità, scansioni ritmiche definitive. Un altro comune denominatore è che i tre artisti di Mariti e le tre artiste di Persona hanno rimaneggiato un’opera cinematografica, adattandola al respiro e alla natura “porosa” della scena. Il risultato è una trasformazione radicale dell’originale. Dall’asciugatura della forma scultorea del tempo del cinema, si è arrivati alla temporalità opaca e in flusso continuo dell’esperienza teatrale.
Ora, però, un altro elemento su cui vale la pena soffermarsi è in apparenza banale. La lettura di Mariti è stata fatta da tre attori, mentre Persona da tre attrici. L’energia che è stata rilasciata dai due gruppi è stata di conseguenza molto diversa. Cercando di verbalizzare l’indicibile abisso della scena, si può semplificare dicendo che la forza evocata dai tre attori era più ironica e tagliente, quella delle tre attrici più riflessiva e sensuale. Tale constatazione empirica nasconde in sé un’interessante ripercussione teorica. Dagli identici assunti di base sull’improvvisazione e sulla lettura accolti dagli attori / dalle attrici, sono discese all’atto pratico due qualità assai differenti del teatro e del tempo.
Ciò solleva a sua volta ulteriori problemi. Le differenti qualità del teatro e del tempo di queste tre letture in dinamica improvvisativa sono dipese dal sesso degli artisti, dal caso, dalla riscrittura del testo, da una combinazione di tutti questi fattori, o da altro ancora? Cosa sarebbe successo, inoltre, se le donne avessero letto Mariti e gli uomini Persona? Sarebbe nata la stessa energia, o ne sarebbe sorta un’altra ancora? E se c’è differenza tra i due tipi di letture, se insomma esistono due tipologie di forze che si possono catturare (= la maschile, la femminile), ci troviamo di fronte a due tipi di teatro, o a due modi di manifestare un’identica misteriosa entità “teatrica”? A nessuna di queste domande è possibile dare una risposta sicura, anzi una probabile e parziale. L’ipotesi di lavoro che sembra più promettente – e che potrebbe essere approfondita col proseguimento del progetto D’umanità, l’attore – è che il teatro sia al tempo stesso maschile e femminile, dunque in realtà impersonale e genderless. In altri termini, esso può rilasciare energie diverse e persino contraddittorie, perché è aldilà di qualsiasi forma e qualità. E se ciò è plausibile, si può arguire che la scelta di passare al paradigma estetico che pone al centro l’attore è più fecondo del paradigma classico, perché il primo può in potenza evocare più forze, aprire più correnti energetiche. Un testo letto secondo moduli rigidi comporta sempre il rilascio della stessa qualità di energia, che tuttavia perde poco alla volta di intensità e vigore. Un attore ne rilascia di contro sempre di nuove e di diversificate, a seconda del suo sesso, della grana della sua voce, dei suoi talenti.
Conviene tuttavia chiudere questa balbettante riflessione con un’avvertenza. Bisogna stare attenti a non pensare che, se il teatro è davvero questa forza impersonale e neutra che gli attori modulano diversamente, allora essa è anche uno spazio e un tempo metafisico in cui “tutto può accadere”. La ragione è che, di fatto, forse nulla accade. Nell’esatto istante in cui queste energie sono evocate e in cui si conclude l’esplorare dell’ignoto, la forza “teatrica” si disperde senza ritorno. Il teatro è dunque forse l’arte dello spreco assoluto, una grande attività di apertura verso il vuoto e la tenebra, densa come il nero insondabile del quadrato di Malevič.