È Ulisse Ulisse e Penelope Penelope? Il dramma dell’identità di "Itaca per sempre"

ITACA PER SEMPRE
di Luigi Malerba

con Woody Neri e Maura Pettorruso
adattamento drammaturgico Maria Teresa Berardelli
scenografia Luca Brinchi e Daniele Spanò
costumi Marta Genovese
disegno luci Javier Delle Monache
musiche originali Giacomo Vezzani
organizzazione Daniele Filosi

regia Andrea Baracco

una produzione TrentoSpettacoli
con il sostegno di Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto, Provincia Autonoma di Trento, Regione Autonoma Trentino-Alto Adige, Comune di Trento, Teatro Comunale di Pergine Valsugana, Spazio Off Trento

di Enrico Piergiacomi

Sono principalmente tre i rischi che può correre un adattamento teatrale di un romanzo. Il primo è quello della fissità. L’azione che nel romanzo è rappresentata e conclusa attraverso il linguaggio può infatti risultare “statica” sulla scena, se non viene resa vivace e dinamica attraverso una costruzione ritmica alla cui realizzazione collaborano gli attori, il regista, i musicisti, e via dicendo. Il secondo rischio è quello di trasformare l’adattamento teatrale in una restituzione della trama del libro, perdendo per di più uno dei pregi semplici e tuttavia caratteristici della lettura. Mentre il lettore può sempre tornare sulle pagine che ha già attraversato, se non ne ha compreso il contenuto o se ha perso uno snodo narrativo, nonché immaginare con la mente quello che il narratore non racconta, lo spettatore si trova ingabbiato in una struttura che rende tutto esplicito a livello visivo e uditivo, ma anche in cui non sono concesse distrazioni e cali di attenzione. Basta perdere un unico snodo di un dialogo tra due personaggi per compromettere la comprensione di tutta la trama dello spettacolo, dal momento che è impossibile tornare indietro o fermare gli attori per chiedere loro dei chiarimenti. Il terzo e ultimo rischio dell’adattamento teatrale è, infine, il pericolo del didascalismo. Uno spettacolo può voler ambire a “spiegare” il romanzo, ossia a dire che cosa il suo autore intendesse comunicare e a isolare, a tal fine, un unico aspetto dell’originale a detrimento di tutti gli altri. Un adattamento può insomma degradarsi in un doppio meno complesso del libro.
Lo spettacolo Itaca per sempre della compagnia TrentoSpettacoli tratto dal romanzo omonimo di Luigi Malerba riesce con successo a sfuggire a questi tre rischi e a restituire un’opera tanto profonda quanto diversa, figlia ma non doppione del testo narrativo. Prima di esaminare da vicino il lavoro svolto dalla compagnia TrentoSpettacoli, conviene tuttavia ricordare brevemente di cosa parli l’originale Itaca per sempre, così da notare con più ordine le sottili differenze tra l’adattamento e il testo di partenza.
Malerba riscrive nel romanzo le vicende della seconda metà dell’Odissea di Omero: il racconto del ritorno di Ulisse a Itaca, lo sterminio dei Proci e il suo riconoscimento davanti a Penelope, con il conseguente ricongiungimento matrimoniale. Secondo l’originale omerico, Ulisse sarebbe stato l’unico soggetto attivo della vicenda. È in fondo lui che stermina i Proci e persuade una Penelope dubbiosa, rimasta per anni sola, che si tratta del marito finora disperso in mare. Come se non bastasse, Omero dedica alla prima impresa ben più spazio rispetto al momento del riconoscimento. Il secondo è in fondo aperto e concluso in una manciata di versi del libro XXIII dell’Odissea. Ora, Malerba rovescia i termini della questione, suggerendo che la vera impresa di Ulisse fu quello di farsi riconoscere davanti a Penelope, e non perché questa aveva dei dubbi sulla sua identità. Il romanziere racconta, anzi, che la donna aveva riconosciuto subito il marito, ma notando che questi titubava a rivelarsi viene invasa da risentimento e astio. Forse Ulisse non si fida di lei, o dopo tanti anni il suo amore è svanito e dunque non considera più la loro riconciliazione come una priorità? Ne segue un conflitto silenzioso. Penelope finge di non riconoscere il marito che pure riconosce e demolisce tutte le prove che egli adduce (e.g., la costruzione del letto matrimoniale, la menzione di un neo posto vicino alle sue parti intime, ecc.), mentre Ulisse si chiede se la moglie stia fingendo di ignorarlo o l’abbia davvero dimenticato e tenta di capirlo con le sue provocazioni. Il labirinto di menzogne e contro-menzogne in cui i due coniugi si trovano invischiati troverà il suo filo di Arianna esclusivamente nel bisogno emotivo. Ulisse è ormai stanco e titubante a riprendere i viaggi, mentre Penelope non è più disposta a ricadere nella solitudine in cui è stata isolata negli anni. Potremmo dire che, alla fine, più dell’orgoglio e del risentimento, poterono gli affetti.
Tornando adesso all’adattamento di TrentoSpettacoli, si nota anzitutto che il mezzo più efficace usato per rendere dinamica e non statica la messa in scena consiste nell’aggiunta di un elemento per nulla contemplato nell’originale. Mi riferisco al ricorso sulla scena di alcuni acquari, con cui gli attori interagiscono periodicamente, così da rendere più vivace il racconto dei fatti che, attraverso la sola recitazione del testo, sarebbe altrimenti risultata teatralmente poco interessante. Gioverà fare due esempi per entrambi i personaggi. Ulisse ricorre al gesto di spruzzare con violenza l’acqua fuori dall’acquario per simboleggiare la decimazione dei Proci, nonché per sottolineare meglio di molte parole la disumanità dell’atto. La battaglia non ha nulla di eroico: è insensata e brutale come il far schizzare l’acqua da una teca. Un altro esempio è l’atto di Penelope di giocare con l’acqua dell’acquario, oppure di immergere le mani al suo interno, nei momenti di maggiore tensione emotiva. Anche tali gesti comunicano qualcosa che le parole non dicono. Il gesto di Penelope serve a trarre dal contatto con l’oggetto la forza per sopportare la presenza dei Proci e per mantenere la maschera di finzione davanti al marito.
Per capire come la compagnia eviti il rischio della replica pedissequa della trama del libro, occorre entrare nel tecnico e notare come l’adattamento si allontana dall’originale. Il romanzo di Malerba è costruito secondo la tecnica del “flusso dei pensieri”. I fatti non sono raccontati da un narratore onnisciente, bensì dalla successione delle voci di Ulisse e Penelope, che interpretano in modi a volte contrastanti gli eventi. Il lettore non sa chi dice il vero e chi il falso, chi sovra-interpreta e chi parla con lucidità. L’adattamento di TrentoSpettacoli insiste invece sulla dimensione dialettica del confronto tra Ulisse e Penelope, nel senso che fa vedere con il corpo degli attori, che non può mentire come le parole, le loro fragilità e le loro reazioni autentiche ai discorsi o alle azioni del coniuge. In altri termini, la compagnia cerca di portare alla luce il lato “umano” dei due personaggi e meno il loro carattere eroico, le ombre della loro relazione più che la loro abilità nel mentire. Lo spettatore può così immedesimarsi emotivamente con il dramma di Ulisse e Penelope, mentre con il romanzo di Malerba ha un’esperienza di tipo intellettuale e distaccata, senza davvero partecipare alle loro sofferenze.
Infine, il pericolo del “didascalismo” viene evitato con quella che, a detta di chi scrive, costituisce la scelta più originale dell’adattamento. La messa in scena di Itaca per sempre di TrentoSpettacoli introduce in più una questione certo presente nell’opera dello scrittore, ma che non ne è il fulcro. Si tratta del problema dell’identità, più nello specifico di quali siano le condizioni per dire che questo è il mio vero “io” e di come far sì che gli altri possano riconoscerlo. La questione che nell’originale di Malerba viene lasciata aperta trova una sua interessante soluzione. A definire Ulisse come Ulisse e Penelope come Penelope non sono le loro parole, che possono nascondere i loro propositi, né le loro azioni, che spesso rischiano di compromettere il loro legame (a furia di fingere di non riconoscere il marito, Penelope arriva a inseminargli il dubbio che non lo riconosce per davvero), né ancora i loro valori, che possono anche non essere condivisi. In quest’ultimo caso, si pensi all’apprezzamento di Ulisse per l’avventura, che pare invece estraneo a Penelope. Quello che rende davvero Ulisse Ulisse e Penelope Penelope sono le loro fragilità e i loro sentimenti. Sotto i veli della menzogna delle parole, questi svettano con evidenza e li riconducono alla fine alla pace. Il vero “io” è insomma qualcosa di molto piccolo, e che tuttavia non può essere edulcorato o cancellato da mille acrobazie dialettiche e desideri di ritorsione.
Qualcuno potrebbe obiettare che queste scelte dell’adattamento di TrentoSpettacoli hanno il limite di far perdere la complessità dell’originale di Malerba. Le voci ambigue dell’Ulisse e della Penelope del romanzo diventano più nette nello spettacolo. E ancora, la loro riflessione sull’identità perde di vista la riflessione poetica sulla difficoltà di distinguere la menzogna dalla verità. Più che di difetti, però, è più corretto parlare di scelte estetiche e stilistiche, che comunque compensano la perdita di alcuni elementi dell’originale con alcuni guadagni. Da un lato, la perdita del discorso sulla menzogna è compensato da un’originale riflessione sul ruolo delle passioni o delle fragilità nel definire una persona. Dall’altro, l’Ulisse e la Penelope che in Malerba sono ancora archetipi, rispettivamente esemplificazioni dell’eroismo inquieto e della femminilità, diventano, nell’adattamento di TrentoSpettacoli, figure vive e concrete.
Per il resto, è inevitabile (oltre che salutare) che nel passaggio dal testo alla scena si perda qualcosa per ottenere qualcos’altro. Come non si può avere, secondo l’adagio popolare, la botte di vino piena e insieme la moglie ubriaca, così non si può avere nello stesso tempo il teatro e la letteratura. Chi cerca l’uno deve necessariamente abbandonare la seconda, e viceversa.