Frantumare la quarta parete. "Follìar" di Astorri/Tintinelli

Folliar
di Alberto Astorri e Paola Tintinelli

Visto al Teatro Il Lavatoio di Santarcangelo, il 19-01-2019
All'interno della rassegna Fuori Stagione di Santarcangelo, rassegna di teatro contemporaneo

di Enrico Piergiacomi

Entrare in scena è insieme una croce e una delizia, un gioco di un bambino in fasce e una tragedia che culmina nella tomba. È questo il concetto fondamentale che, forse, passa attraverso l’immagine di apertura di Follìar di Alberto Astorri e Paola Tintinelli. Due attori in mutande vanno davanti agli spettatori e, dopo averli guardati a lungo con sguardo sornione ma imbarazzato, costruiscono con la schiena piegata e un’andatura goffa il cerchio magico dove cercheranno di evocare delle visioni poetiche, mentre si sente suonare La morte e la fanciulla di Schubert. In una manciata di secondi, vengono concentrati il sorriso e il pianto, i vivi e i morti, l’inettitudine di esistere e la bellezza.
Il resto dello spettacolo non sarà che un inabissamento in quel gesto in apparenza semplice e, in realtà, misterioso. Perché si costruisce un cerchio magico davanti a un gruppo di spettatori complici? La risposta più banale sarebbe che si vuole abbracciare la poesia, ma è proprio qui che il problema si complica. Servono davvero quelle visioni poetiche? Se sì, sono utili a che cosa? Se le sappiamo inutili, perché sostenere a ogni replica questa spossante discesa nell’abisso?
Astorri/Tintinelli tentano di affrontare queste enormi questioni interpretando una coppia di artisti, lo “Zio” cieco e il “Cugino” che lo accudisce, che sono alle prese con la preparazione di uno spettacolo che sicuramente nessuno vedrà mai. Fuori dal loro spazio creativo, infatti, la fine del mondo è avvenuta, sicché i personaggi non possono che chiedersi il senso di recitare dentro un universo in cui tutto – tranne loro e una mosca che irrompe a turbare la tranquillità – è morto. Da questa situazione di partenza si scatena, quindi, un conflitto tra due diverse concezioni dell’arte teatrale e della funzione del suo cerchio magico, in un universo in cui forse nemmeno dio si affaccia più a guardare. Lo “Zio” vede la recitazione come un atto che gli è al contempo necessario per esistere: perché è nella compulsione a cercare la perfezione formale dei suoi gesti che egli riesce a trovare un minimo di scopo alla sua vita e a compensare il difetto della sua cecità. Il “Cugino” gli fa invece da controcanto e da perfetto speculare. Egli denuncia la totale inconsistenza del teatro oggi – «non c’è più niente da recitare», dice a circa metà dell’opera – e, nonostante tutto, rintraccia in quei gesti un altro significato. Il “Cugino” asseconda le compulsioni creative dello “Zio” e fa occasionalmente da spettatore non perché cerca la perfezione della forma, bensì perché ravvisa in loro una potenziale efficacia terapeutica. Il teatro non serve a diventare più perfetti, ma a vivere più felici. Non è un caso che egli compirà l’azione risolutiva dello spettacolo, che placherà le ansie o la mania di perfezionismo del suo partner. Il “Cugino” reciterà con lo “Zio” la scena del King Lear di Shakespeare in cui Edgar invita Gloucester cieco a buttarsi da una finta scogliera e, facendogli fare questa caduta, lo farà ritornare a uno stato di serenità infantile. L’ebbrezza del volo lo farà ritornare innocente e gli restituirà il piacere di giocare semplicemente con una grossa palla, comportando così l’abbandono di qualunque ambizione formale e dell’ansiogena ricerca della perfezione.
Si potrebbe parlare a lungo delle componenti squisitamente tecniche del lavoro, in particolare per quel che riguarda l’uso delle fonti. Qui si crea, infatti, una costruzione drammaturgica complessa. Follìar è, anzitutto, una riscrittura di Finale di partita di Beckett. Il conflitto tra lo “Zio” e il “Cugino” è del resto analogo a quello tra Hamm e Clov nello scenario post-apocalittico del dramma beckettiano. Follìar è poi un approfondimento de La forza dell’abitudine di Thomas Bernhard. Lo “Zio” non sarebbe altro che il doppio di Caribaldi: il direttore di un circo-orchestra che cerca di realizzare in modo perfetto il Quintetto della Trota di Schubert e, tuttavia, arriva all’unico risultato di torturare se stesso e i suoi collaboratori. Si tratta insomma di un personaggio che, per riprendere le parole che Kafka usa per descrivere il trapezista nel racconto Primo dolore, si dedica alla sua arte «inizialmente solo per un ardente desiderio di perfezione, ma successivamente anche per un’abitudine divenuta tirannica». Infine, Follìar è, come si accennava poco fa, una rielaborazione del King Lear – il titolo stesso vi fa, peraltro, esplicita allusione, perché è un neologismo creato mescolando per assonanza fonica le parole Fool e Lear. La caduta finale dello “Zio” nello spettacolo può essere interpretata, dunque, come una consapevole applicazione dell’episodio shakespeariano per comprendere l’arte del teatro.
In questa sede, è appropriato concentrarsi su questo gesto finale. È nel gesto della caduta che, infatti, Astorri e Tintinelli pensano forse di individuare il senso delle visioni poetiche evocate entro il cerchio magico del teatro. Sarà però opportuno fare una breve digressione metodologica per far emergere con un minimo di chiarezza questo loro intento.
Il cerchio magico del teatro che evoca visioni poetiche coincide, dal punto di vista formale, con l’atto della costruzione della cosiddetta “quarta parete”. Un attore si ritaglia uno spazio diverso da quello in cui si trovano gli spettatori, quasi a suggerire: questo è lo spazio dell’arte, il vostro quello della vita. Ora, la “quarta parete” può assumere significati molto diversi a seconda della destinazione che se ne fa. Alcuni artisti possono pensarla come un muro per creare una separazione netta rispetto al pubblico. Gli attori si creano uno spazio privato in cui la poesia che viene evocata deve essere protetta e tutelata da qualunque interferenza esterna. Altri artisti potrebbero mantenere questa quarta parete e, nondimeno, ritenerla trasparente, dunque un forma di separazione meno accentuata. Un esempio di questa procedura può essere un qualunque dramma dialettico di Brecht, che col processo di straniamento rende il confine tra pubblico e platea assai più sfumato. Gli attori evocano una poesia che, tuttavia, cerca la contaminazione col mondo esterno, tanto da invitare gli spettatori a chiedersi come far ricreare entro la vita attiva lo scenario poetico che viene rappresentato entro il cerchio magico. Altri artisti ancora ambiscono, infine, con questo gesto a un obiettivo paradossale e folle. La quarta parete viene edificata, sì, ma con il preciso intento di mandarla in frantumi. Il risultato di questo gesto è che la poesia che viene dapprincipio trattenuta nel cerchio è di colpo liberata all’esterno, portando a una forma positiva di shock emotivo e cognitivo. Vita e arte, attore e spettatore, che di norma vivono e agiscono su piani separati, arrivano per un momento a coincidere tra loro, per mezzo di un’esplosione poetica.
La mia proposta è che Astorri e Tintinelli andrebbero collocati in questa terza categoria di artisti. La scena della caduta è recitata, infatti, girando attorno al cerchio che essi creano all’inizio e facendo cadere lo “Zio” al di fuori di esso. A quel punto, il personaggio tornato bambino gioca a palla con gli spettatori, che essendo coinvolti nella relazione non riescono ad esimersi dal giocare. E lo fanno senza chiedersi la ragione, o meglio trovano la ragione del gioco nell’atto stesso di giocare. Questa condizione di grazia non può certo durare a lungo. Non è infatti fisicamente possibile che arte e vita si fondino tra loro in maniera totale, oppure che la caduta dei confini risulti piacevole se dura all’infinito. Un volo eterno sarebbe anzi faticoso e, alle lunghe, sconfinerebbe nell’angoscia del vuoto. Si tratta dunque di una caduta che avviene nell’attimo, che trova il suo senso nel nascere e nel morire lì. Di più non è possibile né sarebbe vitale pretendere.
Frantumare la quarta parete è, forse, per concludere, il nocciolo di Follìar e la sua nota ottimistica, entro lo scenario di morte e di desolazione che fa da sfondo a tutta la vicenda. L’aspetto più rincuorante di questa prospettiva è che essa fa emergere l’importanza dell’arte teatrale persino nel peggiore dei mondi possibili. Finché ci sarà anche solo un attore e un unico spettatore, in questo caso lo “Zio” e il “Cugino”, il teatro e l’ebbrezza della sua caduta avranno ancora motivo di esistere. Saranno come un puntino di sorgente d’acqua chiara entro un deserto di sabbie nere.