"Gli Ovipari" – Una riflessione su esseri (dis)umani

Gli Ovipari
Drammaturgia
: Francesco Guatieri
Regia: Settimio Petrucci
Cast: Umberto Dassi
Alice Fronza
Anita Girelli
Francesco Guatieri
Anna Serlupini
Maja Urukalo
Visto al Centro Teatro di Trento

di Stefano Scardicchia

Gli Ovipari di Francesco Guatieri è un testo ha una forza notevole e una struttura complessa, con più livelli di lettura. Per gli spettatori è stata un'occasione per confrontarsi con temi come ipocrisia, fede, drammi familiari, rapporto tra religione e scienza, o quello strano concetto che prende il nome di "verità". Per l'autore, il regista e gli attori, è stata invece un'opportunità per non banalizzare tali temi e offrire nuovi spunti di riflessione, forse anche nuove prospettive. Perciò, applausi meritati.
Ma non è di questo che vorrei parlare... delle battute azzeccate, del senso del ritmo, della bravura degli attori, della scenografia scomponibile e minimale, sicuramente punti di forza della pièce. E nemmeno dell'aspetto mondano di un evento che di mondano non dovrebbe avere proprio nulla, restando alieno persino ai complimenti a fine spettacolo. Vorrei parlarvi del testo come esperienza, e del dolore di quei personaggi, gli "ovipari", che conducono una vita insensata dettata da regole altrettanto insensate. Alcuni non hanno nemmeno un nome, si lasciano chiamare semplicemente "la dottoressa" o "il prete", prigionieri di un ruolo a cui è impossibile sfuggire. Sono il nostro specchio, vedete?
Quante volte facciamo di tutto per essere accettati? E raccomanderemmo l'anima al diavolo, o a dio, pur di essere migliori di come siamo? Quante volte viviamo nel terrore di essere accusati di quelle stesse colpe di cui accusiamo gli altri, così da sentirci assolti e innocenti? Invece, dentro di noi, sappiamo di essere diversi, sbagliati, eretici, ma guai a dirlo! Guai a svelare il segreto che tutti conoscono! Ebbene, gli ovipari sono proprio come noi. Alcune femmine, ahimè, partoriscono figli vivi e non depongono uova: sono degli schifosi mammiferi. È il castigo terribile del Creatore, poiché loro o i loro mariti hanno peccato, hanno ceduto alle lusinghe della faina tentatrice, e ormai sono impuri.
Per evitare gli insulti, gli sguardi cattivi o peggio, la gogna, l'esilio, il rogo... sarebbero disposti a tutto, anche a corrompere la dottoressa perché testimoni il falso. E lei, ovviamente, fa pagare caro il suo silenzio, a una famiglia dopo l'altra, fino a racimolare un gruzzolo sufficiente per corrompere a sua volta il giudice, qualora le cose si mettano male. E il prete? Possibile che non sospetti nulla dopo anni di parti difficili? Mai assistito a una deposizione. Arriva sempre a fatto avvenuto, con la "puerpera" coricata di fianco per nascondere il ventre ancora gonfio. Che dire poi dell'ombelico, che un oviparo non dovrebbe avere?
Ipocriti, vigliacchi. Sì, esatto. Eppure, dietro c'è un dolore inconfessato. Per esempio di un "uomo" (o "donna") di scienza che, quand'era giovane e ingenuo, credeva nel suo mestiere, nell'altruismo, nella bontà della gente, come il Medico cantato da Masters e De André. Ma non ci tiene a fare il martire né lo scemo del villaggio. Quello lo lascia a voi, se ne avete il coraggio. Oppure l'amarezza di una madre che mente alla figlia, senza smettere di amarla, pur sapendo che ciò che la povera ragazza sta passando l'ha provato anche lei sulla sua pelle, anni prima. Fingere di non essere un mammifero, ingannare un reverendo, profanare il rituale più sacro benedicendo un uovo di cartapesta! Ma la verità non si può dire, la verità fa male, le bugie invece sono così consolanti, fanno credere che tutto andrà bene. E che sia giusto. Non solo. Come dice il prete nel monologo finale, esistono peccati ben più gravi dell'essere "vivipari", e a questa parola potremmo sostituirne molte altre a piacimento: donne, migranti, omosessuali, stranieri... Ma finché nessuno sa che il proprio vicino è un mammifero, può sempre prenderlo come un esempio di virtù che spinge ad essere migliori. Una piccola bugia a fin di bene, no? Non conta mica la verità, conta andare in paradiso!
Del resto, che cosa ci si può aspettare da una comunità le cui sacre scritture parlano di un dio cinico che insegna ai figli un po' del proprio cinismo? Quel tanto che basta, certo, perché siano a sua immagine e somiglianza, ma non troppo, comunque obbedienti e timorosi. Chi è stupido non merita di essere salvato, nemmeno lo desidera: tanto vale lasciare che si rovini da sé. Chi è vecchio è ormai destinato a morire: inutile prolungare la sua già misera esistenza, o strappargli le false certezze a cui si aggrappa perché ormai ha solo quelle. Il perdono, poi, è in realtà un farsi giustizia nottetempo camuffato da miracolo: i cospiratori sono spariti e il re, ci credereste?, è guarito dalla malattia che aveva solo simulato per smacherarli. Lode al Signore buono e giusto! Con simili modelli, imparare il valore della solidarietà sarebbe, sì, un vero miracolo.
In fondo, parafrasando il pensiero dell'autore, il Sacro Uovo è implacabile come Yahweh nell'Antico Testamento, che indurisce il cuore del faraone affinché egli compia il male e possa essere punito in modo esemplare. Era necessario? Per umiliare il nemico, sì. Per dimostrare la piena potenza dell'unico vero dio, oh sì. La divinità del dramma è altrettanto fredda e calcolatrice. Non le basta fermare l'uomo con la morte, inventando le stagioni come quella di De André, ma si assicura una fedeltà assoluta grazie alla minaccia truffaldina del viviparismo: non esistono gli ovipari, solo dei normalissimi mammiferi preoccupati di essere scoperti da altri normalissimi mammiferi. Condisce poi la propria religione con dogmi e misteri teologali inaccessibili alla comprensione mortale: un uovo rotto non può tornare integro; eppure, l'uovo primordiale da cui è nato l'universo splende intatto nel cielo (noi lo chiameremmo Sole, ma noi siamo umani razionali e non possiamo accedere a simili misteri).
Il ricorso alle parabole, i dialoghi ora melodrammatici ora sottili, una pennellata grottesca, i rimandi interni voluti o inconsci, i nomi dal suono antico che evocano un mondo altro speculare al nostro, coi suoi miti, personaggi e figure archetipiche, il continuo passaggio da un linguaggio semplice, quasi stereotipato, ad uno raffinato, filosofico, a tratti persino altisonante e arcaico... ecco, tali elementi danno la misura della complessità di un testo che, come spesso accade, può dire anche più cose di quelle immaginate da chi lo ha scritto. Di fronte a uno spettacolo come questo dovremmo restare ammutoliti, lasciarlo scorrere nel cuore e nel cervello. E a sipario calato, al buio nel teatro, alla luce per strada, dentro casa, ovunque, riflettere, scavare nelle nostre viscere e poi parlarne, parlarne, parlarne.