I Dubliners di Joyce secondo Giancarlo Sepe, ovvero sulla vitalità dei morti

I Dubliners di Joyce secondo Giancarlo Sepe, ovvero sulla vitalità dei mortidi Enrico Piergiacomi

Faceva inoltre discendere [Pitagora] l’origine
del terremoto dal fatto che esso
non sarebbe che un raduno dei trapassati

(Pitagora secondo Eliano, Storia varia 4.17)

L’ultimo lavoro di Giancarlo Sepe – fondatore del teatro La Comunità di Roma e regista/direttore dell’omonima compagnia – si cimenta con la raccolta di racconti The Dubliners di Joyce,  uno dei più importanti classici della letteratura inglese che denunciava e insieme rifiutava la stanca esistenza della Dublino dei primi del Novecento. Sepe riesce a far rivivere questo testo impegnativo, senza tentare di rappresentare ogni racconto nella sua integrità. L’unico che viene infatti messo in scena direttamente e verso la fine dello spettacolo è, del resto, il famosissimo I morti, sebbene in una sua delicata e densa riscrittura. Rispetto all’originale, infatti, Sepe decide ad esempio di concentrare l’azione nella sola casa delle signorine Morkan, ovvero di non spostare la conversazione finale tra i coniugi Gabriel e Gretta nell’hotel, nonché di far cantare a un’attrice la canzone La fanciulla di Aughrim, che provoca in Gretta il ricordo del fidanzato Michael Furey, morto da giovane per lei sotto la neve. Si tratta di una scelta che ha il merito di riuscire a far “vedere” allo spettatore la forza sconvolgente che l’epifania ha sulla donna e che porterà il marito a prendere consapevolezza che il mondo dei vivi non è rigidamente separato da quello dei morti.

 Per il resto, il regista lavora sugli altri quattordici racconti attraverso un gioco di suggestioni cromatiche e uditive, che è demandato intelligentemente all’autonomia creativa degli attori e delle attrici, che interpretano lo “spettro” di uno o più dei personaggi della raccolta. Non va dopo tutto dimenticato che Sepe non ha imposto allo spettacolo una forma rigida, che chi recita è costretto meccanicamente a ripetere. Ha invece chiesto agli attori e alle attrici di restituire, nei modi a loro più congeniali, alcune atmosfere del testo, così come alcuni suoi contenuti poetici e concetti, tra cui appunto quello che il mondo dei vivi e dei morti hanno confini molto sfumati. Le suggestioni di cui si è detto sono create soprattutto mediante azioni fisiche. Gli attori – che hanno il volto ricoperto da cerone grigio-cenere, come grigia era la vita dei Dublinesi di allora – agiscono ai lati di un grande semipedale (sopra il quale sono posti una miriade di fiori), e di tanto in tanto parlano direttamente con gli spettatori, che a loro volta sono distribuiti in parte su una grande platea distaccata dal proscenio, in parte collocati ai lati del medesimo proscenio. Già questo crea un contrasto interessante. I volti spettrali degli attori risaltano in opposizione ai colori variegati, accesi e vitali dei fiori, nonché agli sguardi vigili degli spettatori, generando una prima confusione tra la vita e la morte. A contribuire alle suggestioni è poi l’accompagnamento di canzoni e melodie irlandesi. Oltre ad evocare la Dublino degli inizi del Novecento e a calare ancora meglio lo spettatore nell’azione, esse costituiscono a tutti gli effetti degli altri “personaggi”, visto che interagiscono con gli spettri e ne condizionano la condotta. Infatti, gli spettri della scena sono spesso animati dalle melodie, perché sulla loro scia ora si alzano in piedi, ora muoiono di nuovo, ora interrompono quanto stanno facendo o dicendo, per cercare con lo sguardo la fonte di alcuni suoni secchi (colpi di campanello, soffi di fisarmonica, ecc.). E infine, le suggestioni nascono dalla recitazione di alcuni estratti da Joyce in lingua originale, che crea un ulteriore contrasto efficace tra la vita e la morte, in questo caso tra la prosodia vitale degli attori e le parole del poeta, che pur essendo grandi resterebbero delle mere lettere inerti in assenza di una voce che le faccia risuonare nello spazio. Questo il lavoro registico e attoriale. Dal punto di vista drammaturgico, Sepe, i suoi attori e le sue attrici riescono invece a mettere in evidenza un aspetto importante dei Dubliners e, di conseguenza, della poetica del primo Joyce. Essi sottolineano come in questa raccolta vengano distinte due specie di morti. Da un lato, vi sono i morti che per convenzione chiamiamo “viventi” e che, in realtà, di vitale hanno ben poco. I dublinesi come Eveline del racconto omonimo e il signor Duffy di Un increscioso incidente sono infatti persone che conducono un’esistenza vile, ridicola, senza stimoli e ideali forti, che per andare avanti devono trarre forza dall’alcool, oppure fuggire i sentimenti che potrebbero rompere le quiete abitudini quotidiane. Dall’altro, vi sono invece i morti nel senso proprio della parola, cioè i defunti e i trapassati, che tuttavia sono paradossalmente quelli che vivono davvero, che hanno solennità e possiedono una potenza straordinaria. Ne è il più lampante esempio proprio Michael Furey, che essendo da tempo morto riesce comunque a tenere avvinto l’amore di Grette e a vanificare gli sforzi del marito Gabriel di ottenere almeno il suo affetto. Sulla scena ciò emerge soprattutto con la trasfigurazione che gli spettri delle novelle joyciane subiscono grazie al lavoro degli attori e delle attrici. Sembra infatti che costoro riescano a conferire agli spiriti di Eveline e del signor Duffy quelle qualità vitali che essi si negati da vivi: intensità di voce e di postura, slanci emotivi e la capacità di lasciarsi trasportare dalla musica. Una tale distinzione provoca così un acuto rovesciamento di prospettiva: il mondo dei vivi è in realtà il mondo dei morti, mentre il mondo dei morti è il mondo dei vivi. E forse la sua rappresentazione sulla scena provoca per converso anche una piccola epifania negli spettatori. I morti che si vedono agire sul proscenio sono molto più vivi di coloro che li guardano, che hanno solo l’impressione di vivere e non sono invece troppo diversi dai Dublinesi di allora. Nemmeno loro, infatti, sono esenti da quei difetti che precludono di condurre un’esistenza autentica. Come dunque i defunti di Pitagora provocherebbero i terremoti sulla terra, così il raduno dei trapassati di Sepe ne provocherebbe altri nelle anime degli spettatori, instillando il desiderio di godere già in questo mondo la vitalità che gli spettri godono nell’altro. Se si presta poi fede all’opinione dell’importante ma ingiustamente dimenticato poeta Juan Rodolfo Wilcock, che ne L’agonia di Luisa afferma che ogni uomo comincia a morire quando, con la nascita, perde l’enorme sensibilità che gli permetteva di avvertire nel feto la minima variazione del battito cardiaco della madre («finora era un morto che viveva, / adesso era un vivente e cominciava a morire»), si capisce forse di più la funzione catartica del teatro. Sepe, gli attori le attrici che collaborano con lui mostrano come sia un’arte che permette di riavvicinarsi a tale vitalità ancestrale.