Il "nichilismo positivo" di "Patruni e sutta" secondo Carullo-Minasi

Patruni e sutta. Peripezie della libertà e dell’illibertà
adattamento da L’isola degli schiavi di Marivaux 
 
interpretazione e testi Giuseppe Carullo, Cristiana Minasi, Gaspare Balsamo, Monia Alfieri
regia Carullo-Minasi
scene e costumi Cinzia Muscolino
disegno luci Roberto Zorn Bonaventura
assistente alla regia e alla scrittura scenica Elena Zeta
consulti filosofici Giulia Merlino

di Enrico Piergiacomi

Mescolare filosofia e scena è una bella operazione che pochi artisti hanno il coraggio di affrontare. Si corre qui il rischio, infatti, di poter mandare in cortocircuito la costruzione teatrale attingendo a materiali che spesso sono considerati come disincarnati, o troppo astratti per diventare materia di drammaturgia e per costruire un ritmo sul palcoscenico. Il lavoro Patruni e sutta. Peripezie della libertà e dell’illibertà della compagnia Carullo-Minasi corre questo pericolo e riesce a presentare una buona sintesi della filosofia col teatro, a loro volta considerate discipline irrelate e molto diverse. Esso dà luogo a una rappresentazione che è, al tempo stesso, una vivace opera teatrale e una riflessione filosofica su un tema tanto difficile, quanto oggi rilevante: la relazione tra il potere e la conoscenza di sé.
Il modello di Patruni e sutta consiste ne L’isola degli schiavi di Pierre de Marivaux del 1725, che vale la pena riassumere nei punti principali. Quattro naufraghi – che a loro volta si dividono in due coppie di padroni e di servi – giungono su un’isola dove vige una sorta di Carnevale istituzionalizzato, o una legge che rovescia come un guanto i rapporti di potere prima vigenti. Il governatore Trivellino del luogo ha sancito che chi giunge nel ruolo del padrone si trova costretto a servire per tre anni il suo schiavo, e viceversa che chi arriva nei panni dello schiavo sia obbligato a vestire quelli del padrone. L’intento del rovesciamento è pedagogico. Si tratta di spingere i naufraghi a “correggere” il proprio ruolo con il vestirsi temporaneamente di quello degli altri, rendendosi così conto degli errori e delle convenzioni in cui erano finora imprigionati. Ne deriva la conclusione didascalica del dramma di Marivaux. I padroni capiscono di esser stati violenti e insensibili verso i servi, e i servi – che dapprincipio si erano a loro volta comportati con violenza/insensibilità contro i loro ex-padroni – si accorgono quali disagi affrontino gli uomini potenti, ma soprattutto quanto sia facile abusare di una posizione di potere. I quattro naufraghi tornano così nel loro «vecchio mondo» cambiati e migliorati. I padroni saranno ora padroni migliori, e i servi dei servi più comprensivi.
La riscrittura di Carullo-Minasi mantiene la trama e l’impianto di Marivaux, depurando tuttavia il testo da tutti gli elementi didascalici, pedagogici, morali, in altri termini delle componente ingenua dell’originale francese. Non esiste più un Trivellino illuminato che dirige dall’esterno un processo di correzione. Le due coppie di servi-padroni si scambiano di ruolo solo per aver sentito dire che in quest’isola vige una legge che rovescia i rapporti di potere, dunque per aver introiettato una norma che agisce su di loro in modo più subdolo. Inoltre, viene rimosso il lieto finale del «vecchio mondo», a cui si torna mantenendo i propri ruoli con migliore intelligenza e una volontà più buona. Mettendosi nei panni del loro opposto, i padroni e i servi arrivano a capire semmai quanto vana fosse la maschera istituzionale che portavano. In altri termini, essi arrivano alla tragica conclusione di essere nulla, o più in generale che ciascun essere umano può essere lo specchio della nullità degli altri.
È allora il tentativo di svelare la vera sostanza di cui è fatta l’umanità ad animare la riscrittura di Patruni e sutta. Lo scopo è qui, in fondo, quello di annullare la stessa opposizione ontologica tra padrone e servo, mostrando come queste due maschere siano una copertura del nulla di cui ogni essere umano è fatto. Ogni padrone vede rispecchiato nel servo di cui veste i panni la vanità dei suoi ordini, mentre ogni servo che vive per un po’ l’esistenza del padrone riconosce come questi incarnasse un ideale di falsa potenza, autorità, libertà. Anche chi spadroneggia si rivela essere, dopo tutto, schiavo di qualcos’altro (vizi, amori, persone ancora più autoritarie o potenti, ecc.). Il teatro di Carullo-Minasi si fa così portavoce di un nichilismo essenziale. La libertà totale non esiste, ma nemmeno la schiavitù assoluta. “Padrone” e “servo” sono due vestiti che ogni uomo prende, indossa, toglie con estrema facilità, in un girotondo emotivo che sembra non avere mai fine.
La compagnia Carullo-Minasi attinge soprattutto, sul piano filosofico, alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, che espone dettagliatamente questo manifestarsi, nel divenire storico, del continuo ciclo di contrapposizione, sintesi e annullamento dei padroni nei servi, o viceversa. Non è tuttavia peregrino ricordare in merito anche un passo del Parmenide di Platone, che sul rapporto tra schiavitù e servitù scriveva così:

«Se uno di noi... è padrone o schiavo di qualcuno, in quanto schiavo, non è schiavo del padrone in sé, di ciò che esiste come padrone, non di quello è schiavo, e in quanto padrone, non è padrone dello schiavo in sé, di ciò che esiste come schiavo, ma, essendo uomo, sarà, nell’uno e nell’altro caso, padrone o schiavo di un uomo. L’essere padroni, preso come concetto in sé, è in relazione all’essere schiavi, preso come concetto in sé, e allo stesso modo l’essere schiavo, preso come concetto in sé, è in relazione con l’essere padroni, preso come concetto in sé, ma quelle cose che sono presso di noi non hanno la possibilità di rapportarsi a quelle specie, né quelle specie possono venire a contatto con noi, ma, come dico, le specie sono in sé e in relazione con se stesse, e così anche quelle cose che sono presso di noi, sono in relazione con se stesse» (133d-134a)

Il passo in sé andrebbe contestualizzato, perché si tratta del momento in cui Parmenide critica la teoria delle idee esposta dal giovane Socrate che rischia di negare la partecipazione tra la realtà sensibile (qui lo “schiavo” e il “padrone”) e la realtà intelligibile (= “lo schiavo in sé”, “il padrone in sé”). Tuttavia, fermandoci all’aporia e leggendola senza le lenti della metafisica, si può notare come Carullo-Minasi dicano con Patruni e sutta qualcosa di involontariamente platonico. Nessun padrone è padrone di tutto: anche fosse potentissimo e disponesse di tutto l’universo, non potrà aver dominio sulle nozioni stesse di schiavitù e di padronanza. Queste esistono fintanto che qualcuno accetta di essere schiavo di un padrone, o ritiene di essere padrone di uno schiavo. Viceversa, nessuno schiavo è schiavo di ogni cosa: è sufficiente che un individuo che è stato incatenato e spogliato di tutto non riconosca l’altro che lo ha imprigionato-derubato come un suo superiore per distruggere l’ascendente che questi ha sul suo presunto inferiore. Ciò significa, in altri termini, che schiavi e padroni esistono fintanto che vengono mantenuti i due ruoli, ossia finché gli uni e gli altri accettano di recitare la loro parte. Schiavitù e padronanza sono insomma concetti relazionali, non possono esistere l’uno indipendentemente dall’altro, e quando si prende consapevolezza di ciò diventa possibile infrangere la logica che li tiene insieme.
Il nichilismo di Patruni e sutta mira così forse a dissolvere questa dialettica. Se si mostra quanto è facile trasformare lo schiavo in un padrone, o anche mostrare quanto vana è la potenza del padrone e quanto vuota è la pretesa di subalternità del servo, si capisce che ci troviamo di fronte a divaricazioni astratte, labili e di per sé convenzionali, dunque modificabili e sostituibili con qualcosa di meglio. Si può così dire che il nichilismo del lavoro teatrale è in sé “positivo”, più che negativo come nelle prospettive nichilistiche ordinarie. Oltre a rivelare la tragedia della nostra esistenza, infatti, Patruni e sutta sembra indicare in più una via di uscita poetica dalla miseria. Quando si diventa consapevoli della propria nullità e del fatto che la logica di potere che sottende il rapporto padrone-servo non descrive nulla di reale, allora si è nella condizione di reinventare il linguaggio e la realtà. L’essere umano è un nulla, ma solo perché finora ha indossato maschere che non l’hanno fatto né progredire, né l’hanno spinto ad agognare qualcosa di bello e importante. La sfida aperta dal vuoto spalancato da Patruni e sutta è così quella di sostituire il vano gioco della trasformazione continua del padrone in servo e del servo in padrone con un gioco più serio, che trovi qualcosa di meglio della vanità, della sopraffazione, del potere.
Il teatro sembra essere l’attività ludica che più si avvicina a realizzare questa utopia. Come uno spettacolo teatrale può rispecchiare la tragica nullità che siamo, forse può anche aprire sentieri che non riusciamo adesso neppure ad immaginare. Dopo che lo specchio ha riflesso la sua luce sul vuoto che ci costituisce, diventa fondamentale andare – come l’Alice di Lewis Carroll – oltre lo specchio. Dietro la sua fragile e diafana superficie, può darsi che ci aspettino meraviglie di gran lunga superiori a quella di scoprirsi di colpo padrone dell’universo intero.