Il pugile e il contorsionista Piaf: come si fa vivere Edith

Il pugile e il contorsionista Piaf: come si fa vivere Edithdi Enrico Piergiacomi

La cantante francese Edith Giovanna Gassion - più conosciuta col nome d'arte di Edith Piaf, il «passerotto di Francia» - è un personaggio complesso e ricco, dal quale risulta impossibile separare le luci della sua carriera di cantante dalle ombre della sua vita privata.

Vi è ragione di credere che la sua voce ammaliante, limpida e forte non sarebbe potuta divenire tale se non avesse tratto vita, forza e colore dalle molte esperienze dolorose della sua biografia. Per citare le più note, il rapporto conflittuale con il padre contorsionista e alcolizzato, l'infanzia in un bordello, un breve periodo di cecità, la morte di meningite della figlia Marcelle, la lotta contro l'alcolismo, la perdita del compagno Marcel, di professione pugile, a causa di un incidente aereo, di cui si sentì responsabile – l'uomo prese, infatti, il volo per la Francia che gli risultò fatale perché Edith lo aveva supplicato di raggiungerla. Questa commistione di chiaro e oscuro sta, forse, alla base della potente influenza che Edith esercita ancora oggi sull'immaginario collettivo e della grande fascinazione che ha sugli artisti, in particolare di quelli di teatro, che non hanno mancato di rendere omaggio alla cantante con i loro spettacoli.

Dei più recenti tentativi di messa in scena contemporanea, uno è La vie en rose di Sonia Nifosi, su cui esiste un bell'articolo della critica Marianna Masselli (La vie en rose: come si uccide Edith Piaf: http://www.teatroecritica.net/2013/12/le-vie-en-rose-come-si-uccide-edith-piaf/), l'altro è Edith, il passerotto di Francia, scritto e diretto da Davide Strava, e interpretato dall'attrice e cantante Sarah Biacchi, con la musica suonata al pianoforte da Ivano Guagnelli e il coordinamento musicale di Lino Patruno, andato in scena al Teatro Portland di Trento. Intendo qui recensire il secondo spettacolo, che a mio avviso offre un ritratto vivo sia della donna che dell'artista, facendo qualche confronto con il primo, che sulla base del resoconto lucido e tagliente di Masselli pare avesse, al contrario, "ucciso" Edith.

Secondo Masselli, l'unica preoccupazione di Nifosi è stata quella di «fondere in modo armonico musica, interpretazione attoriale e danza», senza peraltro riuscire a unirli in una sintesi coerente. Non mi pare si possa dire lo stesso per la versione di Strava-Biacchi, che rispetto a quella di Nifosi rinuncia alla danza e allo "schermo" di un narratore esterno. È Edith stessa a raccontare la sua vita, ora intervallando momenti in cui parla direttamente con il pubblico o con il pianista Guagnelli, che suona a stretto contatto dell'attrice sul palcoscenico, ora cantando le arie che la resero immortale e illuminano, nel "qui e ora" della scena, un aspetto della sua biografia. Per esempio, il celebre Hymne a l'amour viene impiegato per marcare il periodo felice della sua relazione con Marcel, nell'esatto momento in cui l'attrice ha appena finito di ricordare il giorno in cui donò al compagno una coroncina, pensata come simbolica protezione negli scontri sul ring. Si può dire, allora, che la versione di Strava/Biacchi non si limita a giustapporre l'elemento recitativo e l'elemento musicale, lasciandoli separati e inerti, ma li fa fluire sapientemente l'uno nell'altro, al punto tale da legarli inscindibilmente. Il lavoro perderebbe molto del suo fascino (e, in certi frangenti, diventerebbe persino incomprensibile) se la recitazione facesse a meno delle arie cantate, e se il canto prescindesse dal monologo recitato.

Un secondo elemento vitale che emerge dello spettacolo di Strava-Biacchi è la sua leggerezza. Per indicare che cosa intendo con questo termine, ricorro ancora una volta a un confronto con un altro limite dello spettacolo raccontato da Masselli: la pesantezza dovuta a un apparato scenico didascalico. Se non mi inganno, la critica riferisce che il lavoro di Nifosi usa la danza e la musica per "commentare" il racconto di Cocteau, per ripeterne in altro modo quanto il personaggio ha già riferito allo spettatore con la voce. Nulla di tutto questo accade con la Edith di Strava-Biacchi, dove si ricorre a elementi scenici che aggiungono sempre qualcosa di più a quello che sta dicendo l'attrice. Il caso più eclatante è quello delle luci, che sono sapientemente usate nelle loro più disparate gradazioni per ringiovanire o invecchiare la cantante, oppure per infrangere temporaneamente il dialogo diretto tra lei e lo spettatore, per esempio avvolgendo la prima con un barlume soffuso e violaceo nel momento in cui canta la bellissima Mon Dieu. Inoltre, la stessa recitazione di Biacchi non quanto produttivo cortocircuito tra la modulazione della voce e il contenuto del suo monologo. Anche quando racconta i momenti più terribili, infatti, l'attrice mantiene sempre una tonalità allegra e a tratti ironica, senza mai scadere nel facile accento triste o compassionevole, come la situazione apparentemente richiederebbe. Ciò comunica un tratto essenziale del personaggio, vale a dire il suo amore per l'esistenza nel suo complesso, che accetta incondizionatamente. La vita per lei «è sempre arrivata tutta insieme, e non ho avuto scelta».

Quest'ultimo tratto mi permette di rilevare l'ultima caratteristica che, secondo me, fa vivere l'Edith di cui ci raccontano Strava-Biacchi, desumibile stavolta a partire da uno spunto contenuto nel testo. A circa metà dello spettacolo, la cantante fa capire che una svolta importante nella sua carriera artistica fu dovuta al sodalizio con il poeta Raymond Asso, che la educò da giovane a un uso più consapevole della voce e del corpo nel canto. Prima di allora non dava tutta sé stessa, ma si limitava a cantare senza capire o a cantare per sé stessa, venendo così paragonata a un «contorsionista rigido» o a un boxeur che combatte per la strada per vanità personale, ovvero a un cattivo contorsionista e a un cattivo pugile. Questi sono, infatti, rispettivamente buoni se lavorano come il padre di Edith e come il compagno Marcel, che si preoccupano solo di mettere in gioco nel loro mestiere tutta la propria forza, senza affievolirla giudicando quanto stanno facendo. L'allenamento che Asso sottopone a Edith coincide, allora, con un addestramento a infondere nel canto tutta l'energia vitale che la donna ha accumulato con le sue esperienze, comprese quelle più dolorose, le quali vengono in tal modo amate e giustificate. Da quel momento in avanti, Edith riuscirà, non a caso, a dare sé stessa con grande generosità nei momenti felici e ad accogliere con gioia i traumi che la vita le riserverà, dato che questi danno maggiore intensità alla sua voce e le conferiscono una superiore capacità di seduzione. Trasformando in suoni melodiosi i suoi dolori, del resto, Edith riesce a lenire e a consolare i dolori di coloro che lo ascoltano, se non anche del mondo intero.

In sostanza, Strava e Biacchi offrono un ritratto dell'artista molto originale e fuori dagli schemi consueti, facendo conseguentemente emergere degli aspetti finora non troppo conosciuti o addirittura ignoti del personaggio. Edith, il passerotto di Francia risulta perciò un lavoro solido, poetico, leggero e mai didascalico, che sposa musica e teatro insieme per educare lo spettatore a tentare di aderire alla vita con entusiasmo, accettando anche gli aspetti dolorosi dell'esistenza. Poiché questi danno uno slancio che i piccoli piaceri quotidiani non possono dare e stimolano a non attraversa distrattamente la vita, bensì a percorrerla cantando.