Iphigenia in Tauride
Ich bin stumm (Io sono muta)
da Johann Wolfgang Goethe e Christoph Willibald Gluck
Testo e imagoturgia | Francesco Pititto
Installazione, regia, costumi | Maria Federica Maestri
Interprete | Monica Barone
Notazioni coreografiche | Davide Rocchi
Cura | Elena Sorbi
Organizzazione | Ilaria Stocchi
Produzione e promozione estero | Loredana Scianna
Ufficio stampa e promozione | Michele Pascarella
Cura tecnica | Alice Scartapacchio
Media video | Doruntina Film
Assistente | Marco Cavellini
Produzione | Lenz Fondazione
con il patrocinio di Goethe-Institut Mailand
Orestea #1 Nidi
Da Eschilo
Drammaturgia | Francesco Pititto
Installazione, costumi, regia | Maria Federica Maestri
Interpreti | Valentina Barbarini, Sandra Soncini, Carlotta Spaggiari
Musica | Lillevan
Cura | Elena Sorbi
Organizzazione | Ilaria Stocchi e Loredana Scianna
Ufficio stampa e comunicazione | Michele Pascarella
Cura tecnica | Alice Scartapacchio
Assistente | Marco Cavellini
Produzione | Lenz Fondazione
Visto il 13/04/2019 presso Lenz Teatro di Parma
di Enrico Piergiacomi
Iphigenia in Tauride e Orestea #1 Nidi - prima parte di un trittico ispirato all'Orestea di Eschilo (d'ora in poi solo "Nidi") - rappresentano due tentativi di Lenz Fondazione, molto diversi ma complementari, di studiare i miti dell’Orestea, usando un filo conduttore sotterraneo e intelligente: il tema della rinascita. Secondo Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, infatti, è in fondo a questo evento a cui aspirerebbero gli accadimenti di questo ciclo mitico e dominato dalla morte violenta. E il mezzo teatrale a cui i due artisti fanno ricorso per cercare di raggiungere tale fine è l’evocazione di un’immagine diversa da quelle ordinarie, perché capace di modificare il reale e non solo (o non tanto) di rappresentarlo.
L’Iphigenia in Tauride incarna il polo positivo di questa ricerca della rinascita, perché mostra come essa sia raggiungibile e comporti una radicale trasformazione in meglio in chi la esperisce. Protagonista dello spettacolo è, del resto, l’attrice e danzatrice sensibile Monica Barone, che al pari della Ifigenia del mito si mostra sulla scena insieme fragile e sinistra. In quanto sacerdotessa deputata a sacrificare ad Artemide gli stranieri che giungono sull’isola di Tauri, ella si trova contemporaneamente ad assumere il ruolo dell’uccisore e della donna costretta dalle circostanze ad adeguarsi a questo empio rito di sangue. L’arrivo del fratello Oreste in Tauride la costringe, però, a dover prendere per la prima volta una scelta. Finora Ifigenia era stata appunto carnefice e vittima. Adesso ha la possibilità di assumere su di sé solo il primo ruolo, sacrificando anche il fratello ad Artemide, o di rompere la catena di sangue che ha finora assecondato. È noto come il mito racconti in tutte le sue varie riscritture, da Euripide a Gluck e oltre, che Ifigenia sceglierà la seconda via e, grazie a questo gesto umano, riscatterà dalla stessa dea Artemide, che si farà all’improvviso mansueta da cruenta che era. Sia la donna che la divinità rinasceranno, insomma, a nuova vita e acquisteranno una diversa identità rispetto a quella finora voluta dal fato divino.
Iphigenia in Tauride di Lenz Fondazione non si distingue da questa tradizione letteraria quanto ai contenuti. Lo spettacolo attinge anzi testo, ispirazione e trama proprio da questo repertorio tradizionale, con particolare riferimento al Titus-Iphigenie di Joseph Beuys. Ciò che distingue il lavoro è piuttosto la prospettiva che il percorso salvifico o di rinascita non passa mai attraverso la parola e l’azione drammatica. L’attrice-danzatrice Barone non dice, infatti, una singola parola e non compie nessuno dei gesti voluti della tradizione, tra cui il tentativo di fuga dall’isola con il fratello. L’Ifigenia di Lenz Fondazione ha una qualità che è forse definibile come “metafisica”. Le trasformazioni della donna non hanno luogo con i mezzi reali e concreti della parola o dell’azione. Ifigenia si trasforma sempre sprofondando dentro un’immagine e incarnando la visione sul suo corpo sensibile, che diventa così di colpo poetico e libero.
Si possono rapidamente menzionare le tre immagini fondamentali che scandiscono lo sviluppo dell’intero spettacolo. All’inizio, osserviamo una danza di Ifigenia sul retro di uno schermo in cui sono proiettate le acque del Mar Nero che lambiscono l’isola dei Tauri. Esso contrassegna un’autentica trasformazione della donna in ombra e la prima delle sue rinascite: quella da figlia di Agamennone, immolata sull’altare per consentire agli Achei di salpare verso Troia, a sacerdotessa di Artemide, ossia da essere umano a ministro divino. In mezzo, si vede invece Ifigenia che fa calare dall’alto le corna della cerva che era stata sostituita sull’altare degli Achei da Artemide e sacrificata al suo posto. Il gesto è un primo momento di svezzamento dalla dea e dal suo sostegno, che a sua volta simboleggia l’aspirazione a costruirsi ora da sé il proprio percorso di vita. Infine, lo spettacolo si conclude con l’atto audace di Ifigenia di staccare e muovere le colonne del tempio di Artemide, che comporta il momento di salvezza definitivo. La donna ha ora preso in mano il suo destino e, invece di uccidere gli stranieri in un tempio dedicato al sacrificio umano, fonda con le macerie della vecchia sede un nuovo culto per Artemide, basato sulla pace e sull’autonomia. Dalla dipendenza all’autorità divina, si passa ora alla libertà umana, ossia alla rinascita ad oppositrice del fato e a donna che non si aspetta più dagli dèi alcun miracolo per poter sopravvivere alle difficile impresa di vivere.
La stessa logica dello sprofondamento dell’immagine si applica, poi, a Nidi, che tuttavia stavolta mostra solo il polo negativo del ciclo continuo delle rinascite e delle trasformazioni. Il lavoro è infatti una successione di quadri tragici, ciascuno dei quali porta sì una nascita di qualcosa di diverso da quello che c’era prima, che tuttavia non esce mai – come in Iphigenia in Tauride – dalla dimensione della violenza. In termini tecnici, Nidi incarna sulla scena il concetto antico del miasma: l’idea che a un atto violento (= l’uccisione di Ifigenia) debba seguire altra violenza (= la morte di Agamennone), che a sua volta comporterà un altro violentamento (= la distruzione di Cassandra), e così potenzialmente all’infinito. Possiamo dire, da questo punto di vista, che ogni quadro tragico genera sempre nuovi e diversi orrori, stavolta senza una forma apparente di salvezza. Per esempio, il secondo quadro dominato dal sentimento della paura, causato dall’arrivo di Agammenone, è seguito nel terzo dall’odio di Clitemnestra per il marito e nel quarto dall’ansia della profetessa Cassandra, che anticipa grazie al suo dono di preveggenza le catastrosfi che verranno.
Si può giustificare, entro tale logica, forse il momento più bello di tutto lo spettacolo. Mi riferisco al quadro 7, dove Clitemnestra e Cassandra si mostrano entrambe distese sul letto, in posa di partorienti e anzi in preda alle doglie del parto, le quali tuttavia porteranno solo all’uccisione della profetessa e di Agamennone. Si tratta del punto in cui il miasma raggiunge il suo apice: persino nell’atto sacro del nascere, infatti, ciò che sorge è solo nuova morte e non una vita innocente. Certo, sul finire dello spettacolo, lo spettro di Ifigenia comparirà un’ultima volta sulla scena per prefigurare il suo futuro di gloria (“Sono cresciuta come una luce, / non rifiuto la morte. / Un'altra vita avrò, un altro destino”), che è forse una chiara allusione alla trama del mito della rinascita descritto, senza andare lontano, proprio nel lavoro Iphigenia in Tauride di Lenz Fondazione. Si tratta tuttavia di un’eccezione, o di un breve lampo di luce che rende più fitta la tenebra, invece di dissiparla. La stessa madre Clitemnestra non troverà infatti energia o gioia da questa visione, perché resterà invischiata soltanto nel lato oscuro che porta con sé questa immagine, ossia Agamennone che uccide la figlia e che andava fermato a suo tempo, per interrompere sul nascere la catena degli orrori (“Sua figlia, mia figlia / l’ha sgozzata, / per fermare i venti. / Lui bisognava scacciar da questa terra, / quel pianto / mio lungo”).
In conclusione, potremmo dire che Iphigenia in Tauride e Nidi hanno in comune, pur nella diversità di tono (l’uno più focalizzato sul riscatto e la possibilità della trasformazione in meglio, l’altro più concentrato sulla logica del miasma), la concezione che il teatro consiste, forse, nel creare un’immagine che opera una serie di costanti trasformazioni. Da tal punto di vista, il lavoro di “imagoturgia” di Pititto potrebbe essere qualificato anche come una “imagot(e)urgia”. Se infatti intendiamo con “teurgia” la capacità di un’immagine non tanto di rappresentare qualcosa della realtà, quanto di modificarla e di sostituirsi al reale, allora le immagini mostrate nei due spettacoli sono teurgiche perché compiono questo scarto dell’immaginario nel concreto. Il fatto che la trasformaziona compiuta dall'immagine possa essere sia positiva che negativa, ossia portare alla rinascita di Ifigenia come al miasma, non costituisce un problema, perché è una contraddizione insita nella natura stessa del teatro. Questo è infatti il cerchio magico dove si può allestire sia una ricerca fiduciosa nella salvezza che l’evocazione di orrori indicibili.