La donna, il pianto e la guerra nelle Troiane di Euripide

di Enrico Piergiacomi

La rivisitazione moderna delle Troiane di Euripide di Marco Bernardi, andata in scena in prima nazionale al Teatro Stabile di Bolzano e riportata dal 7 dicembre 2012 all’Auditorium del Centro Santa Chiara di Trento, ha un intento preciso. Come riportano le note di regia dello spettacolo, essa si propone infatti di utilizzare l’antica tragedia come un forte e attuale atto di denuncia della «stupidità della guerra». 

Il regista ha voluto, da un lato, rappresentare la dolorosa caduta in schiavitù delle più illustri e potenti signore di Troia (Ecuba, Cassandra, Andromaca), per sottolineare quali sciocche atrocità compiono i trionfatori sugli sconfitti, dall’altro usare la femminilità soggiogata come specchio rivelatore del degrado antropologico e sociale che emerge in una civiltà al termine di un conflitto bellico.

In linea di massima, si può dire che l’obiettivo del regista sia stato felicemente raggiunto. Bernardi ha avuto sia la sensibilità che l’intelligenza di scegliere un testo che era nato proprio per denunciare la guerra e per smascherarne la demente crudeltà. Dal punto di vista storico, il dramma di Euripide fu probabilmente creato per condannare e biasimare il sacco di Melo, di cui i suoi concittadini Ateniesi si erano resi responsabili. Anche la decisione di utilizzare la donna quale punto di osservazione privilegiato è risultata una mossa vincente. La vicenda di Ecuba, Cassandra e Andromaca ha infatti destato grande partecipazione emotiva negli spettatori, così come una spontanea adesione al rifiuto della guerra.

Bernardi ha inoltre saputo compiere la sua denuncia lasciando inalterata la struttura delle Troiane. Egli ha rappresentato la vicenda nel suo complesso, senza operare tagli impropri delle scene che meno si prestavano a condannare la guerra, come la misteriosa apparizione di Poseidone e Atena durante il preludio della tragedia, oppure l’agone retorico tra Elena ed Ecuba. Bernardi non ha poi approfittato della libertà concessa dalle Troiane, che al pari di ogni altro dramma antico non possiede né didascalie né indicazioni scenografiche o registiche, se non quelle implicitamente contenute nei versi di Euripide, come la costruzione di una tenda, da cui far uscire la maggior parte dei personaggi femminili. Il regista ha introdotto solo elementi allusivi alle guerre condotte in Medioriente, che però non hanno stonato con gli eventi della tragedia, perché anzi ne hanno rinforzato la bellezza e l’attualità. Bernardi ha scelto di trasformare Troia in una città israelita distrutta dagli Americani, collocando sullo sfondo alcune immagini di rovine di città, circondando il palco di sacchi da trincea, vestendo da marines i Greci Taltibio e Menelao, nonché proiettando alcuni filmati. Questi ultimi sono stati a loro volta integrati sapientemente con la rappresentazione o perché trasformati in strumenti di raccordo tra episodi – per esempio, il particolare di un uomo caduto dall’alto delle Torri Gemelle è servito a rappresentare l’uccisione fuori scena di Astianatte, il figlio di Andromaca, e a collegare l’uscita di Elena con il ritorno di Taltibio –, oppure perché impiegati quali suggestivi accompagnamenti alle parole pronunciate dai personaggi. Molto intensa è stata a tal riguardo la scena della lamentazione del coro, qui opportunamente ridotto a due sole attrici, che hanno usato due microfoni posti a ridosso dei due lati del palco, mentre alle loro spalle venivano proiettate alcune desolate immagini di morte e di guerra.

Tuttavia, mi sembra altrettanto doveroso evidenziare che Bernardi ha potuto raggiungere il suo scopo a prezzo di una semplificazione della qualità poetica della tragedia. L’interesse ad attualizzare e politicizzare le Troiane lo ha, infatti, implicitamente condotto a rappresentare gli uomini vincitori come i banali aguzzini delle donne vinte, quando in realtà i versi euripidei manifestano con chiarezza più volte che anche i Greci sono considerati altrettanto vittime della guerra. Si pensi al preludio dell’opera, dove Poseidone e Atena fanno conoscere agli spettatori le gravi perdite di vite umane che gli Achei subiranno durante il ritorno a casa. O ancora, si tengano presente le profezie della delirante Cassandra, che anticipano le dolorose traversie di Ulisse e la morte di Menelao ad opera di sua moglie Clitemnestra, le quali non si sarebbero determinate senza la guerra troiana.

La più evidente semplificazione operata da Bernardi si è riscontrata, però, nella caratterizzazione del personaggio di Taltibio. Contro le intenzioni dello stesso Euripide, che lo rappresenta spesso come un uomo che simpatizza molto per le disgrazie delle Troiane, il personaggio è stato trasformato in una macchietta sadica, che non perde occasione per vessare le donne col corpo e con le parole. Col corpo, perché laddove le Troiane agiscono in modo nobile o solenne, Taltibio compie per contrasto (e a volte per deriderle) alcune azioni volgari: si mangia le unghie, applaude al delirio di Cassandra, tocca con irruenza il seno di Andromaca e fa il verso al suo urlo di dolore, succhia un lecca-lecca nei momenti più drammatici, riprende con una telecamera l’incendio di Troia durante il finale. Con le parole, perché egli pronuncia con sarcasmo e tono derisorio anche le battute che tradiscono la sua empatia per la sorte delle sconfitte. Quale esempio, si può addurre la scena in cui Taltibio viene a comunicare ad Andromaca la decisione dei Greci di uccidere Astianatte. Qui, l’araldo pronuncia battute come «vengo controvoglia» o «è difficile da dire», che indicano in modo evidente la sua partecipazione emotiva al dolore della donna e tradiscono l’orrore per la decisione presa dai suoi capi. Questo deliberato allontanamento dal senso semplice dei versi di Euripide si ripete del resto, nella stessa scena, anche nei riguardi del personaggio di Andromaca. Ella viene portata in scena completamene legata e immobilizzata, mentre secondo le indicazioni del testo sarebbe dovuta essere condotta su un carro con le braccia sciolte e tenendo stretto il figlio.

L’operazione registica compiuta da Bernardi attraverso la rilettura del personaggio di Taltibio non è affatto innocua, e non solo perché impoverisce il carattere di un personaggio complesso, che ora è animato dalla pietà verso le donne, ora dal timore delle ripercussioni che subirebbe in caso di trasgressione degli ordini ricevuti. La sua rilettura del comportamento dell’araldo presenta infatti Euripide come l’autore di una visione manichea del reale, dove: 1) i vincitori in quanto vincitori risultano malvagi e perversi, mentre i vinti in quanto vinti appaiono deboli-inermi, e dove 2) gli uomini in quanto uomini si rivelano spregevoli conquistatori e vessatori da condannare, laddove le donne in quanto donne si scoprono sempre come vittime incolpevoli o innocenti. Ma entrambe le dicotomie sono contraddette dalle figure di Menelao e di Elena. L’uno si lascia persuadere da Ecuba a punire la moglie per aver lasciato la Grecia, dunque risulta un uomo vincitore che non viene abbrutito dalla vittoria in guerra al punto da non ascoltare il parere di una donna vinta. L’altra è una donna vinta che fa di tutto per aver salva la vita dal marito vincitore, piuttosto che assumersi le proprie responsabilità per rispetto della sorte delle Troiane. La realtà euripidea è allora per sua essenza ambigua, non riducibile a categorie definite. Il vincitore si mostra altrettanto debole del vinto, e il vinto forte al pari del vincitore. Di contro, gli uomini appaiono grazie a Taltibio come mortali immancabilmente esposti al dolore quanto la donna, mentre le donne si presentano con la figura di Elena sadiche e ingiuste allo stesso titolo dell’uomo.

Col suo spettacolo, Bernardi ha in sostanza evidenziato che la femminilità è semplice debolezza, che soccombe alle atrocità dei conflitti che gli uomini portano con sé. Nonostante ciò, egli ha suo malgrado lasciato intravedere con diversi segni che la femminilità potrebbe essere qualcosa di più, ossia una forza dirompente in grado di scatenare le guerre. Mi riferisco a: l’idea che per riprendersi Elena i Greci hanno combattuto in una terra lontana e ostile; la femminilità di Andromaca, che va immobilizzata per trattenerne il potere; la metafora – costruita da Poseidone durante il preludio – del cavallo di Troia che espugnò Troia come «gravido di guerrieri», ossia come una cavalla che partorisce guerrieri avidi di battaglia; e infine, il fatto che Cassandra indichi con la torcia Taltibio, vestito da marine, mentre esulta per Ecate, segnalando così che la dea protettrice del matrimonio e delle vergini sia in realtà, segretamente, una sanguinosa dea della Guerra.

Dunque, che fare? Dovremmo forse seguire l’esempio di Menelao, ossia dilapidare l’Elena che risiede in ogni donna, al fine di rimuovere dal mondo lo spettro di guerre future e di vendicare quelle passate? Per quel che mi riguarda, il cuore e la ragione mi inducono a rispondere negativamente. Perché se Euripide ha ragione nel rivelarci che ogni opposto è anche il suo contrario, e se è vero che la donna ha per sua natura la capacità di scatenare conflitti, allora essa sarà anche, per converso, l’unica creatura dotata della forza uguale e contraria per estinguere le guerre. Attraverso di lei, l’umanità può sempre apprendere a trasformare la guerra in qualcosa di costruttivo, così come ad aderire in modo bruciante e commosso all’esistenza persino nelle più grandi sventure. Una “lezione” del primo tenore sarebbe l’azione fisica, compiuta da Ecuba e dal coro, di seppellire il corpo di Astianatte sotto i sacchi di trincea, ossia di usare uno strumento di distruzione per conservare la memoria di un bimbo. Insegnamenti della seconda specie sarebbero invece i pianti a cui le Troiane si abbandonano lungo tutta la tragedia, che non costituiscono un mero abbandono allo sconforto. Poiché essi sono piuttosto coraggiosi atti di dissidenza verso le disgrazie che le hanno umiliate e ferite, ma non ne hanno diminuito la vita.