La letizia orrenda della scesa. Sul Festival del suicidio di Matteo Lolli

La letizia orrenda della scesa. Sul Festival del suicidio di Matteo Lollidi Enrico Piergiacomi

Si può spettacolarizzare la poesia e svuotarla completamente di senso? Il Festival del suicidio di Matteo Lolli - fondatore della compagnia Potevano Essere Rose di Roma, insieme all’attore Alessandro Lori e l’attrice Camilla Corsi - mostra non solo che è possibile, ma anche che la società dello spettacolo in cui viviamo si sta pericolosamente e inesorabilmente avvicinando a tale meta.

La televisione emette con sempre maggiore dispendio di risorse e crescenti consensi programmi che mercificano la musica, la danza, il cinema, per cui non è assurdo pensare che l’inclusione della poesia sarà il coronamento ultimo di questo ampio processo di svalutazione dell’arte. Se ciò non è ancora avvenuto, è forse perché il lavoro del poeta ha poco appeal sul grande pubblico, perché è poco interessante osservare su teleschermi a diffusione mondiale un uomo chino su carta o un computer che sceglie doviziosamente le parole giuste per esprimere qualcosa di alto e profondo, che non si vive nell’esperienza quotidiana. Lolli sottolinea che questo passo ulteriore potrebbe essere fatto con un accorgimento molto semplice. Il lavoro del poeta è poco interessante? Allora lo si renda tale, inscrivendolo in un sistema spettacolare che gioca sui sentimenti più morbosi e bassi del pubblico. E quale trovata migliore può essere, in tal senso, un festival che mette a concorso il suicidio dei poeti, con tanto di televoto finale e l’osservazione della loro morte cruenta in diretta? Una tale iniziativa è in grado, infatti, di fare della poesia un mero preambolo per uno spargimento di sangue, detto altrimenti un modo per tenere alta la tensione del pubblico, che attende con ansia e piacere l’eliminazione fisica di un suo simile.

La traduzione scenica di questa idea è la rappresentazione stessa della prima edizione del festival del suicidio. Dopo un rapido preambolo, che introduce il presentatore e la valletta Lulù al pubblico, vengono portati sul palco uno di seguito all’altro sei poeti, alcuni molti noti (come Majakovskij e von Kleist) e altri meno (come il povero Vittorio Reta). Costoro sono poi invitati a recitare una propria poesia, ispirata alla loro vita tormentata, a cantare qualcosa e, sulla scia della musica, a commettere il gesto estremo con uno sparo, del veleno o altro. Nel frattempo, molti tra i poeti eseguono alcuni comandi che ricevono dal presentatore o dalla valletta (sali sulla sedia e leggi la tua poesia, racconta la tua storia, ecc.), diventando così quasi delle piccole scimmiette ammaestrate a sorridere e ammiccare al pubblico che li avrà presto in pasto. Non tutti, però, poiché ad esempio Marina Cvetaeva non fa in tempo a ricevere comandi dall’esterno, perché malmena con superbia il presentatore che, sornione, cerca di indurla a lasciare un messaggio di saluto alla vita. Ma la sua eccezione è solo apparente, visto che anch’ella si fa di fatto vedere mentre recita, canta e muore. Si potrebbe forse addirittura pensare che la mancata collaborazione fosse prevista dagli organizzatori, costituisse un falso incidente di percorso costruito ad arte per dare un po’ di “pepe” allo spettacolo. Anche il momento in cui la poesia è recitata viene svalutato e banalizzato. Mentre i versi sono letti, vengono proiettati sullo sfondo alcuni video che rappresentano incendi, gorghi e altri fenomeni naturali che, più che agevolare la comprensione di quelle parole, distraggono l’attenzione dello spettatore, precludendogli di focalizzarla tutta sul contenuto poetico. Essi sono resi in altri termini inefficaci attraverso un processo di enfatizzazione o amplificazione: tutto deve essere bello, le parole come le immagini, affinché niente risulti tale.

Il punto è allora che il festival del suicidio costruisce una complessa macchina spettacolare che fa recitare la poesia in modo da neutralizzarla. Invece di mostrare il poeta che tenta di elevarsi sopra il mondo materiale con le ali dei versi, si sceglie di farlo salire appena in un po’ alto giusto per farlo precipitare in un abisso, per generare nel grande pubblico «la delizia orrenda della scesa». La citazione è tratta dalla Hilarotragoedia di Giorgio Manganelli, a cui il lavoro di Lolli vuole rendere omaggio, ed esprime bene, a mio avviso, il sentimento insieme morboso e dolce che prende colui che assiste alla caduta del poeta. Nonostante tutti questi accorgimenti per neutralizzarle e trasformarle in mezzo spettacolare, le poesie lette nel festival mantengono una loro carica vitale: i contenuti che essi esprimono arrivano, loro malgrado, a colpire lo spettatore e a smuoverlo, o almeno tale è stata la mia impressione. Potremmo paragonare questo effetto non previsto a dei lievi scricchiolii della macchina infernale ben oliata. E se i contenuti poetici arrivano lo stesso, ciò implica che la poesia non si lascia sfruttare completamente, non viene del tutto omologata al sistema spettacolare. Ciò lascia sperare che, persino nel caso in cui la tragica eventualità della mercificazione della poesia dovesse tradursi in realtà, un barlume di bellezza sopravvivrà lo stesso, anche se sarà piccolo e percepibile a fatica.

Va comunque precisato che quanto notato non basta ad aprire la possibilità di una redenzione. Lo spettacolo di Lolli si conclude con il presentatore e la valletta che si sparano di fronte a uno schermo, in cui viene prima proiettata una citazione di Pavese, che dichiara che vivere consiste in fondo nello straziare gli altri, poi un breve video di un nibbio che spenna e divora una colomba. Il poeta non può più volare, perché condannato a rimanere a terra da una forza più brutale di lui.