La suggestiva visione del paese dei ciechi

La suggestiva visione del paese dei ciechidi Ivan Ferigo

Teatro di Pergine, 29 ottobre 2015 

“Ora che ho perso la vista, ci vedo di più!” esclama Alfredo in Nuovo Cinema Paradiso, citazione poi campionata dai Dream Theater nella loro Take the time. Assistendo al debutto della nuova produzione di AriaTeatro Nel paese dei ciechi, che il 29 ottobre del 2015 ha inaugurato la stagione di prosa del Teatro di Pergine, l’associazione sorge quasi spontanea.

L’agile racconto di H.G. Wells narra infatti di un mondo capovolto dove la mancanza della vista è quasi un valore aggiunto, mentre averla è tutt’altro che un vantaggio. La compagnia perginese (con Chiara Benedetti alla regia) ha vestito con diversi linguaggi teatrali le folgoranti pagine dello scrittore inglese, creando una riscrittura scenica poetica e di forte impatto visivo ed emozionale. Già la prima scena ne è uno stupefacente assaggio. La scena, realizzata da Federica Rigon (che firma anche costumi e disegno luci), è essenziale ed evocativa: bastano due teli di nylon trasparente per rendere visivamente l’ambientazione. Il testo di Wells inizia con un antefatto che narra l’origine del Paese dei Ciechi: in seguito all’eruzione di un vulcano, l’intero fianco della cima di una montagna frana e sbarra al resto del mondo la misteriosa valle. Per rendere questo incipit non ci sono – e non sono necessarie – parole: sono sufficienti i lumi di candela, il movimento dei corpi, la musica prima soffusa e poi sempre più sostenuta. Un esordio quasi da teatro danza. La colonna sonora accoglie gradualmente voci vagamente selvagge, la mimica degli attori si fa sempre più disperata. Gli abitanti della valle diventano ciechi e addebitano questa malattia ai peccati, motivo per cui costruiscono un piccolo capitello. Anche per trasmettere questo rito non servono ancora parole, conta di più comunicare con gesti efficaci l’ansia e la disperazione di aver preso la vista. Una dimensione a cui però questa gente finisce per abituarsi.  A un certo punto nel Paese dei Ciechi precipita, cadendo durante un’arrampicata, una sagoma nera: è Nuñez, il protagonista impersonato da Denis Fontanari. Una donna entra a passo di danza e gli annuncia a mo' di narratore dove è capitato. I vari personaggi indigeni, interpretati da Giuseppe Amato e Chiara Benedetti (abili nei veloci cambi di costume), vedono Nuñez come un “diverso”, e perciò lo interrogano. Nuñez in virtù del dono della vista si ritiene superiore, vuole condurre i ciechi alla ragione e diventarne re; gli indigeni però non capiscono la parola “vedere”, si burlano di lui e dei suoi racconti, lo chiamano Bogotà come la città da cui proviene, lo considerano un incapace, una mente malformata. Nuñez cerca allora di spiegare cosa sia il cielo, ma anche stavolta senza successo; spazientito, prende una vanga e cerca di colpire un uomo, ma non ne ha il coraggio. Un passaggio, questo, reso in una scena di forte impatto visivo: gli attori si muovono con delle torce sotto il telo trasparente, il fondale si abbassa e si fa a ponte. Il protagonista fugge dalle mura del villaggio, salvo poi tornare per cercare di adattarsi agli usi dei ciechi. In questo passaggio conosce Medina-Saroté e se ne innamora; la ragazza ricambia i suoi sentimenti ed è affascinata dai suoi racconti, pur considerandoli solo fantasie: un dialogo romantico restituito ancora una volta a passi di danza. Nuñez chiede in sposa la giovinetta, ma gli anziani sono disposti ad acconsentire alla sua richiesta solo se prima si farà asportare gli occhi, che a loro giudizio gli danneggerebbero il cervello. La ragazza cerca di convincerlo a farsi operare, ma Nuñez non vuole rinunciare alla vista e scappa dal villaggio. Specularmente all’incipit, anche le pagine finali – che lasciano la conclusione sospesa – sono rappresentate soltanto attraverso l’azione scenica: il protagonista tocca il fondale, quindi sferra un pugno e lo squarcia, crea un varco, rimane a terra «sotto le fredde, chiare stelle».  Alla sua seconda regia (prima interamente concepita da lei), Chiara Benedetti ha impresso un'idea precisa nella direzione ma aperta a possibili sviluppi. Nel paese dei ciechi è il risultato di un affiatato lavoro di squadra che ha esaltato le doti interpretative di tutti gli attori: molte illuminanti e arricchenti soluzioni di drammaturgia scenica sono nate da sedute di improvvisazione. In continuità con il precedente My romantic history (ideato del compianto Riccardo Bellandi) si inserisce il filone del teatro danza. Come in quell'occasione, la compagnia ha lavorato con la coreografa del Teatro Stabile di Genova Claudia Monti: il suo apporto stavolta è meno massiccio, ma ha saputo comunque creare ispirati fotogrammi da immortalare. Il tutto è impreziosito dal suggestivo gioco di luci (che sottolinea il continuo contrasto buio-luce che pervade il testo) e dalle azzeccate musiche che, inseriti in una scena semplice, polivalente e affascinante, creano una delicata visione da cui lasciarsi soavemente trasportare.