"Le lacrime amare di Petra von Kant" di Fassbinder

Le lacrime amare di Petra von Kant

di Rainer Werner Fassbinder
regia di Federico Gagliardi
con Flaminia Cuzzoli, Maria Giulia Scarcella, Elisa Novembrini, Jessica Cortini

Visto al Teatro India di Roma, ottobre 2019

di Sandra Pietrini

Le lacrime amare di Petra von Kant (1971) di Fassbinder è un dramma difficile da interpretare. Inadatto, per vari motivi, ad attrici ancora giovani, che non hanno ancora affinato la capacità di riempire di senso i silenzi, di scandire il ritmo del discorso scenico come fosse una partitura musicale. Sebbene il testo si addentri nei meandri della psicologia femminile, sarebbe fuorviante ridurlo a una storia di intense emozioni e passioni quasi patologiche. Alla base del comportamento fiero e pugnace della protagonista, l’algida stilista di successo reduce da fallimenti sentimentali e ostentate disillusioni, sta l’intuizione dell’inevitabile gioco di potere sotteso alle dinamiche amorose. L’amore passione, una volta dissolta la brama di un’impossibile simbiosi, non può che trasformarsi in un rapporto servo-padrone. Sia nei rapporti etero che in quelli omosessuali, che la pièce pone sostanzialmente sullo stesso piano.
Questa intuizione, che si legge in filigrana nel doloroso disincanto della protagonista, non le impedisce di scivolare nel baratro della passione non corrisposta per una giovane opportunista e spregiudicata, Karin, che diventa la sua (non troppo) accondiscendente concubina mantenendosi tuttavia libera da ogni legame, pronta a concedersi altre avventure e occasioni. E così Petra, da donna di potere abituata al comando, si trasforma in una vittima della crudeltà insita nelle dinamiche amorose, incapace di vivere per sé stessa e schiava del proprio desiderio.
Ma questo grumo di passioni, pur rappresentando un livello fondamentale di lettura del dramma, non ne esaurisce il senso, che resta più enigmatico e sfuggente, come dimostra l’emblematico finale, in cui fra l’altro il regista sceglie di allontanarsi dal testo teatrale per mettere in scena quello del film realizzato dallo stesso Fassbinder nel 1972. Con un colpo di scena inatteso, Petra viene abbandonata senza una parola dalla fedele cameriera proprio quando cambia atteggiamento nei suoi confronti, smettendo di trattarla duramente, come una schiava, e inizia a considerarla come una persona degna di interesse, risollevandola da terra allorché quella le abbraccia adorante le ginocchia. Petra sembra aver finalmente compreso la necessità di amare senza voler dominare e possedere, ma la realtà le sbatte in faccia un’altra impossibilità: non si può essere amati per ciò che si è, ma soltanto per ciò che si rappresenta per l’altro, una padrona da servire e adorare nel caso della cameriera, un’amante ricca da sfruttare nel caso di Katrin. L’amore crea dipendenza, e genera rapporti di potere. E la passione si nutre vampirescamente di relazioni verticali, impari, di dinamiche di forza primordiali, come quello fra dominatore e suddito, vittima e carnefice. La sostanza concettuale del discorso si traduce nel magma irrisolto di sentimenti in cui si dibatte la protagonista, di cui l’attrice principale, Flaminia Cuzzoli, rappresenta in modo efficace le transizioni emotive.
Il problema è che una rappresentazione del personaggio, in questo dramma tagliente e freddo come una lama, che però affonda nella carne viva della protagonista, non basta a riversare sulla scena la sostanza concettuale di una lotta feroce destinata alla sconfitta. Nella difficile dialettica fra empatia e comprensione intellettuale, la regia di Federico Gagliardi segna il passo, affidandosi al ritmo incalzante del coinvolgimento emotivo a scapito della disincantata, nitida e allo stesso tempo oscura essenza del dramma. D’altra parte, non è facile mantenersi in equilibrio fra queste due linee divergenti. Un indefinito senso di mancanza coglie lo spettatore, in maniera inattesa, alla conclusione del dramma, e non bastano a colmarlo i rituali di gelida geometria coreutica e prossemica inventati dal regista, né il ricorso a colori e forme di eccentrico rigore, e tantomeno trovate di facile impatto come l’andirivieni in biancheria intima della protagonista sul palco. Coerente e incisiva è invece la scelta di adottare il finale del film invece di quello più rassicurante del dramma teatrale, in cui Marlene decide di restare con la sua padrona. Molto efficace infine la scelta dello spazio teatrale, con gli spettatori che circondano la scena a distanza ravvicinata dagli attori, racchiudendoli simbolicamente in un bozzolo impenetrabile e irrisolto. Uno spettacolo riuscito soltanto a metà, dunque, ma a suo modo coraggioso e denso.