Le ombre di Lemno. L’uso dei miti in Alù/Russo

Filottete
di Letizia Russo
Regia: Carmelo Alù
Con: Carmelo Alù, Alvise Camozzi, Paolo Musio, Marina Occhionero
Supervisione alle scene: Dario Gessati
Costumi: Gianluca Falaschi
Luci: Pasquale Mari
Supervisione ai Movimenti: Francesco Manetti
Aiuto Regia: Luca Vassos
Direttore di Scena: Alberto Rossi
Sarta: Manuela Stucchi
Foto di scena: Riccardo Freda
Saggio di diploma del corso di Regia - Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico
visto il 21 dicembre 2017 al Teatro Studio "Eleonora Duse" di Roma

di Enrico Piergiacomi

Il regista Carmelo Alù e la dramaturg Letizia Russo sembrano presentare, con lo spettacolo Filottete, la riscrittura di un unico mito antico: quello dell’eroe omonimo che, affetto da un cancro maleodorante al piede causatogli dal morso di un serpente, venne abbandonato sull’isola di Lemno dai Greci in viaggio verso Troia. In realtà, il lavoro è la contaminazione di questo e di un altro racconto mitico, molto meno noto. Stando infatti alle fonti antiche, in particolare alle Argonautiche di Apollonio Rodio (libro I, vv. 607-921) e alla Biblioteca dello pseudo-Apollodoro (libro I, cap. 17, §§ 114-115), l’isola di Lemno sarebbe stata anche “teatro” del mito delle Lemniadi. Queste donne vennero maledette da Afrodite a emanare puzzo dai loro corpi, per aver smesso di onorare il culto della dea, e in seguito trucidarono i loro mariti, che le avevano abbandonate per sfuggire al cattivo odore e per unirsi di letto con alcune schiave di Tracia.
Si potrebbe parlare a lungo su ciò che accomuna Filottete e le Lemniadi, andando aldilà della mera (benché niente affatto insignificante) collocazione geografica. Si potrebbe notare, ad esempio, che è un caso curioso che l’uno e le altre soffrano della comune sventura di emanare cattivo odore. O ancora, si potrebbe sottolineare che a salvare tali personaggi è l’intervento di un deus ex machina esterno, proveniente fuori dall’isola. Filottete è riportato al fronte di Troia da Neottolemo, figlio di Achille, mentre le Lemniadi sono rese gravide dall’arrivo degli Argonauti e restituite, in tal modo, alla società patriarcale che era andata distrutta con la maledizione di Afrodite. In questa sede, mi soffermerò, in ogni caso, su due elementi comuni che Alù e Russo hanno scelto di valorizzare col loro Filottete, attraverso i quali propongono la loro personale idea della funzione poetica dei due miti antichi.
Prima di procedere in tal senso, occorre però sottolineare anche le più rilevanti differenze del lavoro dei due artisti rispetto agli originali mitici. Il Filottete di Alù/Russo non è anzitutto ferito al piede, bensì alla mano destra, dunque si trova di per sé nell’impossibilità di usare l’arco per cacciare, come nella versione raccontata (tra i tanti) da Sofocle. Di contro, sulla scena non vediamo le Lemniadi unirsi agli Argonauti, secondo quanto prevedeva il mito, ma l’unica Lemniade sopravvissuta delle generazioni precedenti, che d’ora in poi chiamerò per comodità “Lemnia”. La donna funge da mano destra perduta di Filottete, consentendogli di cacciare e sfamarsi. Sul piano registico, tale scelta drammaturgica implica, peraltro, un’interessante operazione concettuale. Lemnia diventa un “doppio” femminile di Filottete, cosa che accosta con ancora più forza i due personaggi tra loro. Nello stesso tempo, a livello registico, la scelta drammaturgica diventa una ghiotta occasione di gioco scenico per gli attori coinvolti. Lemnia agisce per esempio in senso letterale da “prolungamento” del corpo di Filottete, quando usa la sua mano destra per compiere i gesti e i movimenti che la mano destra dell’eroe non può fare, perché divorata dal cancro.
Tenendo a mente queste divergenze, torniamo agli elementi che, stando alla riscrittura di Alù/Russo, i due personaggi hanno in comune. Il primo è senza dubbio la solitudine. Filottete e Lemnia condividono un’identica condizione di “esilio” dal consesso umano, a cui desiderano (almeno all’inizio) far ritorno. Se il primo è respinto dall’esercito greco di cui faceva parte e ambisce segretamente a tornare al fronte, l’altra è tenuta lontana dal letto matrimoniale e chiede a Neottolemo di fecondarla. L’alleanza tra Filottete e Lemnia costituisce, pertanto, un modo tutto particolare di sopportare la solitudine, e produce almeno un risultato interessante a livello scenico. I due personaggi comunicano tra loro con un linguaggio privato, una sorta di finto “volgare” italiano fatto di parole quali «sbaglisbi», «cervella», o «scucizione», che forse si è formato, appunto, proprio per instaurare un legame profondo e personale durante la lunga convivenza sull’isola.
Il secondo elemento che Filottete e Lemnia hanno in comune è più importante. I due personaggi sono parimenti attraversati dal male in tutte le sue forme, che emerge con maggiore forza dopo l’arrivo di Ulisse e Neottolemo sull’isola. Anzitutto, sia l’uno che l’altra sono costretti a sopportare o a far uso della menzogna, per ragioni di pura sopravvivenza. Filottete è ingannato da Neottolemo e Lemnia è costretta a stare al gioco di quest’ultimo. In secondo luogo, tutti i personaggi patiscono di continuo violenza nel corpo o nell’anima. Filottete è attraversato da violenti crisi epilettiche a causa del suo cancro, Neottolemo prova il rimorso per aver mentito, Ulisse non dorme da anni per aver fatto l’errore di aver abbandonato Filottete sull’isola, Lamia teme la vecchiaia imminente . E infine, un altro male dominante e comune sulla scena è quello della vanità. Pur avendo fatto esperienza dell’ingiustizia e della solitudine con il suo esilio, Filottete desidera ancora partecipare a una guerra che non ha senso e che non farà altro che determinare, nei Troiani che saranno sconfitti, nuove ingiustizie e nuova solitudine. Sarà anzi proprio per aver compreso questa vanità che Lemnia – unico tra i personaggi che cambia davvero proposito sulla scena – deciderà di rinunciare ad avere un figlio da Neottolemo, così da non renderlo vittima o carnefice del conflitto che sostituirà quello di Troia, il quale sarà a sua volta seguito da un altro, e così via (apparentemente) ad infinitum.
Questi due elementi presi insieme ci permettono di ipotizzare la funzione poetica e cognitiva dei miti raccontati dal Filottete di Alù/Russo. La fusione del racconto di Filottete con quello delle Lemniadi ha lo scopo di far emergere, secondo i due artisti, le “ombre” dell’esistenza, che a loro volta manifestano con forza fuori dal comune il destino fragile a cui ogni essere umano viene esposto col nascere. In altri termini, i miti mettono talmente in evidenza la menzogna, la violenza e la vanità a cui si espone la vita umana, le quali potrebbero indurre una donna sensibile come Lemnia a rifiutare la maternità. Non potendo sottrarsi alle ombre macabre dell’esistenza, l’unico atto di libertà della donna è, paradossalmente, quello di decidere di non consegnare un altro essere umano al suo identico destino.
Alcuni spettatori potrebbero non apprezzare il cortocircuito cronologico che si viene a creare con la fusione dei due miti. In fondo, le vicende delle Lemniadi sono precedenti alla guerra di Troia, sicché nessuna di queste donne avrebbe mai potuto incontrare Filottete, Ulisse e Neottolemo, fosse anche una di molte generazioni successive come Lemnia. Altri potrebbero trovare il finale eccessivamente cupo e immorale, oltre che di per sé già noto. Attraverso la scelta di Lemnia, non verrebbero che ripetuti, con un linguaggio diverso, la nota massima tragica di Sileno che è meglio non essere mai nati (o, se nati, di morire al più presto), così come i versi del Macbeth di Shakespeare che descrivono l’esistenza come «un’ombra che cammina; / […] una storia / raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, / che non significa nulla». Tutte prospettive parimenti confutabili e parziali, su cui non vale la pena soffermare eccessivamente l’attenzione.
A ciò risponderei che il teatro (e la poesia che ha luogo sul palcoscenico) non ha nulla a che fare con la verosimiglianza storica, né con la presentazione di prospettive esistenziali nuove, né con una morale che rassicura. La bellezza – scriveva Rimbaud ne Una stagione all’inferno – è per sua natura «amara». Aspirando al bello, dunque, il teatro non può pretendere di essere necessariamente ottimista e allegro. Se pure risulta certo parziale, poiché è facile dimostrare con la filosofia e con la scienza che ci sono anche “luci” nell’esistenza, il teatro evoca nondimeno delle ombre che rendono misterioso e affascinante lo scarso tempo che ci è concesso da vivi. Quelle che si manifestano raccontando di nuovo i due miti di Lemno, attraverso il Filottete di Alù/Russo, sono solo alcune tra le molte che spesso restano inavvertite.