Le Troiane di Euripide nella rivisitazione di Marco Bernardi: il dramma della guerra tra passato e presente

di Maria Teresa Galli

Dopo dieci lunghi anni di estenuante assedio e di guerra, Troia è caduta: i Greci hanno avuto la loro vittoria. Ma non è sui trionfatori che va a posarsi lo sguardo di Euripide: nelle Troiane, i suoi versi danno voce ai vinti, al loro dolore, alla devastazione che ha ridotto in macerie la loro città un tempo fiorente e, con essa, i loro cuori. 

Il poeta leva una voce di denuncia contro le atrocità e le assurdità che la guerra trascina con sè, e lo fa ponendo al centro della scena la sorte di un gruppo di donne troiane, fino a poco prima mogli e nobili madri in una Ilio dal glorioso passato, ma ora sventurate prigioniere che attendono con angoscia di conoscere il proprio imminente destino di schiavitù.

Marco Bernardi riporta sulla scena un grande classico euripideo e lo fa in una continua alternanza di elementi antichi e moderni, sottolineando che la guerra che il drammaturgo greco narrava nel 415 a.C. in realtà non è molto diversa da quelle che affliggono la nostra epoca, e che ora come allora lasciano come eredità non eroi ma vittime, non trionfi ma desolazione e dolore.

Ad aprire la scena sono, come nel testo greco, due dei, Poseidone (Carlo Simoni) ed Atena (Valentina Capone), che ci informano sul destino di Troia. Le vesti, la postura ieratica ed il bianco del loro volto conferiscono all’apertura della pièce una Stimmung classica convincente, che ritorna con gli stessi due personaggi anche nella chiusura, in una sorta di Ringkomposition.

Nello scenario che si presenta subito dopo, lo scarto che si avverte è molto stridente: la tenda da campo allestita al centro della scena e i frammenti di oggetti rotti ci strappano all’atmosfera mitica iniziale e ci trasportano nella cruda realtà. Una realtà di guerra, o meglio di ciò che resta dopo la guerra: frammenti quasi irriconoscibili di un passato che ormai non esiste più.

A dominare la scena dall’inizio fino alla conclusione del dramma è la presenza di Ecuba, nell’intensa interpretazione di Patrizia Milani. Tutto in lei, le parole, i gesti e le povere vesti, trasmette angoscia e disperazione; il dolore per il presente e l’orrore per la futura condizione di schiavitù sono tanto più penosi in quanto si contrappongono alla grandezza e alla felicità passate. Il dolore della regina non può che aumentare alla vista di sua figlia Cassandra (una travolgente Gaia Insenga), che irrompe delirante con una fiaccola in mano cantando e danzando il proprio imeneo, in un crescendo sinistro di presagi funesti e alternando in modo inquietante dementia e lucidità. Il pathos giunge al culmine quando Cassandra, sacerdotessa di Apollo che ha votato la propria vita e la propria verginità al dio, totalmente sopraffatta dal delirio si strappa la veste denudandosi e mostrando il proprio corpo violato.

Una nuova raffica di dolore si abbatte su Ecuba alla vista di Andromaca (Sara Bertelà); la nobile sposa del grande Ettore viene trasportata in scena legata ad un carretto, totalmente immobilizzata. Il suo abito, una tuta di un arancione acceso che contrasta con il grigio ed il nero che prevalgono tutt’attorno, evoca nello spettatore l’immagine di prigionieri vittime di atrocità a noi non lontane, così che le violenze del passato si sovrappongono nella mente a quelle dell’epoca moderna. Il passaggio è breve, ed è suggerito di continuo dalle immagini realistiche di scenari di guerra recenti che vengono proiettate sullo schermo collocato in fondo al palco.

Il dolore delle tre donne, cui fa eco quello di due giovani troiane (Karoline Comarella e Valentina Morini) che rappresentano il coro, viene incessantemente provocato ed esasperato da un Taltibio (Corrado d’Elia) dal taglio volutamente insolito. Non resta più traccia, infatti, dell’empatia nei confronti delle prigioniere che talvolta si avvertiva nelle sue parole nel testo euripideo: cinico e sprezzante, assiste divertito alla miserevole sorte delle Troiane e fa trapelare un piacere quasi sadico nel momento in cui si fa latore di nuove sventure. Tenendo il ritmo con il battito delle le mani, accompagna ironicamente la folle danza di Cassandra; consuma ostentatamente cibi di fronte alle prigioniere e le rende oggetto delle sue risa beffarde. Le Troiane sopportano con dignità, ma precipitano nel più profondo sconforto quando odono da lui la notizia più penosa: Astianatte, figlioletto di Andromaca e del grande Ettore, unica speranza per una futura rinascita di Troia, verrà ucciso nel modo più atroce, e con lui morirà anche l’ultima illusione delle prigioniere.

Sinuosa nel suo vestito moderno nero ed aderente, sfoggiando occhiali da sole, scarpe con il tacco e rossetto rosso, compare poi una Elena (Valentina Bardi) che prosegue il gioco dei passaggi continui dal passato al presente. La sua proverbiale bellezza ed i suoi discorsi costruiti ad arte non saranno sufficienti, tuttavia, a garantirle la salvezza. Sui suoi freddi sofismi, volti ad incolpare gli dei delle azioni che lei ha compiuto, hanno la meglio le parole di Ecuba, che si confronta con lei in un agone verbale intenso e memore della tradizione sofistica, a conclusione del quale Menelao (Riccardo Zini) dichiara Elena colpevole.

Ma il rogo che nel frattempo dilaga sulla città interviene a sottolineare come non vi siano nè soddisfazione nè tanto meno vittoria alcuna per Ecuba e per le Troiane neppure in questo caso, neppure in seguito alla condanna di colei che della guerra – e dunque della loro rovina – è stata la fiamma scatenante. Non vi sono nè vincitori nè vinti: ciò che resta, ieri come oggi, è solo cenere.