Le Troiane di Euripide: una tragedia contemporanea

di Valeria Tirabasso

Quando le fiamme di una guerra si spengono, nel momento in cui gli uomini e le donne superstiti si guardano intorno e scorgono inorriditi le macerie che hanno soppiantato le loro case, in quel momento ed in quel luogo e su quelle esistenze si apre la tragedia Troiane di Euripide, che alza il sipario là dove l'Iliade lo aveva fatto calare, per mostrarci la totale insensatezza di una guerra, che diventa simbolo di ogni guerra. 

Sul palco Ècuba, Andromaca e Cassandra aspettano di conoscere il loro destino, ora che i loro mariti, figli e fratelli sono stati uccisi dai greci. In questa attesa, carica di dolore, le donne ripercorrono le tragiche vicende appena concluse, come per cercare una spiegazione che né loro, né noi che le ascoltiamo, riusciamo a trovare. Con loro sul palco Taltìbio, soldato greco, le rende a poco a poco partecipi delle decisioni dell'esercito vincitore, decisioni che riguardano il destino infelice di ciascuna delle protagoniste.

Nella regia di Marco Bernardi per il Teatro Stabile di Bolzano, la figura di Taltìbio è quella che si discosta maggiormente rispetto al testo classico, in una riscrittura scenica che, pur restando fedele ad Euripide (la traduzione di Caterina Barone non modifica il testo se non per renderlo più comprensibile e meno artefatto possibile per lo spettatore di oggi) inserisce nuovi elementi simbolici altamente significativi. Se da un lato, infatti, il dialogo tra i personaggi riporta fedelmente la vicenda, dall'altro il regista utilizza costumi, luci, videoproiezioni ed oggetti di scena per creare una tensione quasi palpabile tra due realtà. La triste vicenda delle troiane si concretizza negli abiti semplici e poveri indossati da Ècuba e Cassandra; il loro presente e futuro di schiave si prefigura nel costume di Andromaca (una tuta arancione che richiama la divisa dei prigionieri del carcere di Guantánamo) e nella sua posizione, legata da cinghie e costretta in una posa innaturale che espone il suo corpo allo scherno di Taltìbio. Quest'ultimo, negli abiti e in alcuni atteggiamenti, raffigura gli odierni soldati che troppo spesso, come lui, si abbandonano a comportamenti moralmente discutibili, deridendo i prigionieri, riprendendo con telecamere la loro perdita di dignità, sbeffeggiandoli o, peggio, picchiandoli.

Non si tratta però di un'opposizione tra buoni e cattivi, non è una semplice distinzione tra le donne troiane e l'esercito greco. Dietro questi due gruppi si nascondono due condizioni esistenziali del genere umano: i vincitori ed i vinti della guerra di Troia, che richiamano i vincitori e i vinti di ogni conflitto passato e presente. Nell'introdurre questi opposti personaggi, infatti, Marco Bernardi ci invita a riflettere sull'attualità della vicenda, mostrandoci, come si diceva, negli abiti o in oggetti di scena, il lato contemporaneo della tragedia. Ma non siamo di fronte ad una semplice trasposizione di una tragedia classica in chiave moderna, poiché il regista non si limita a vestire con abiti odierni i personaggi euripidei. La vicinanza del testo alla nostra realtà viene sottolineata attraverso l'inserimento di filmati proiettati sulla scena, che sospendono l'azione e creano parallelismi tra la città di Troia e il martoriato Medio Oriente, tra le troiane, che hanno perduto la guerra ma anche la libertà e la vita dei loro familiari in modo disumano e cruento, e la morte del dittatore Gheddafi, barbaramente ucciso dalla folla una volta scovato il suo nascondiglio. I vinti, gli sconfitti, anche quando si sono macchiati di crimini nefasti, sono sempre uomini e donne, ed ucciderli, picchiarli, deportarli, non aiuta a risolvere i conflitti; anzi, ripropone in un'eterna coazione a ripetere quei crimini e quelle ingiustizie che essi avevano commesso.

Nel rapido dispiegarsi dell'opera, gli spettatori sono testimoni delle atrocità delle guerre e dell'assurda, costante ricerca dell'uomo di opporsi, lottare, combattere i propri simili, procurando morte e distruzione per i più futili motivi: la guerra è tanto più un incomprensibile ed illogico strumento risolutivo dei conflitti quanto più si abbatte su chi, innocente e puro per definizione, non ne ha colpa. È il caso di Astianatte, giovane figlio di Andromaca e di Ettore, ultima speranza di rinascita per la stirpe troiana, “ucciso dai greci per paura”. Il bambino, avvolto in un bianco, candido sudario, tra le braccia di Ècuba che lo piange, diventa il simbolo dei morti innocenti di tutte le guerre. Anche in questo caso, sono due similitudini indicate con videoproiezioni che mettono in relazione il triste destino di Astianatte con vittime del presente. Dapprima, quando Taltìbio annuncia la decisione dei greci di ucciderlo, la figura di Astianatte viene accostata a quella di un bambino africano morente di stenti. Poi, una volta conclusasi la sua esistenza (i greci lo gettano dalla torre di Troia), egli prende le sembianze delle vittime dell'attentato dell'11 settembre 2001, che si lanciarono nel vuoto, in fuga disperata dalle fiamme che hanno distrutto le torri gemelle di New York.

Fedeltà al testo classico e profonda attualizzazione sono i due termini tra i quali si muove l’interpretazione del regista: niente sembra cambiare sul palco, nella traduzione del testo euripideo, nella narrazione della vicenda, nella rappresentazione di Ècuba e delle altre donne, e contemporaneamente tutto cambia, nella caratterizzazione di Taltìbio, nell'inserimento di videoproiezioni, nell'uso simbolico di abiti e oggetti di scena. Come a significare che dal 415 a.C. ad oggi tutto è cambiato, ma nulla è diverso da allora.