Lo straniamento della "Anamnesi" di Bianchini

Lo straniamento della "Anamnesi" di Bianchinidi Enrico Piergiacomi

Anamnesi. Cronaca di un malato per nulla immaginario
Scritto, diretto e interpretato da Marco Bianchini
Luci: Massimo Betti Merlin

Il monologo Anamnesi. Cronaca di un malato per nulla immaginario di Marco Bianchini si giova di un’interessante e acuta premessa teorica: è impossibile esprimere il dolore attraverso il linguaggio. Ciò lo si osserva nella vita quotidiana. Chi prova o ha provato sofferenza e vuole raccontarla a qualcuno cerca di esprimersi usando aggettivi vaghi e poco precisi, come «lancinante» e «fastidioso», o con abbondanti metafore e paragoni, che ci danno solo l’impressione di capire che cosa l’altro ha sofferto («ho un cerchio qui in testa», «sento un mattone nello stomaco», «è come se degli spilli mi bucassero il cuore»). Quando poi il dolore risulta particolarmente violento, la parola non riesce nemmeno ad affacciarsi, perché a persona sofferente emette un grido inarticolato, o resta in assoluto silenzio.

Laddove il linguaggio logico fallisce, può subentrare in soccorso, dunque, eviterei almeno la formula fra parentesi, ma vedi tu se e cosa ripristinare una forma di comunicazione che non cerca di esprimere il dolore, che è appunto un proposito impossibile, bensì di farlo vedere. E il teatro può costituire uno di questi mezzi. Bianchini ricorre, infatti, nello spettacolo da lui stesso scritto e interpretato, ad apologhi tratti dalla storia della medicina, ad aneddoti, a racconti più o meno reali della sua esperienza biografica, e a molto altro, per cercare di far vedere agli spettatori come il malato si relazioni con il suo dolore, nonché come abbia luogo il suo processo di guarigione dalla malattia.
Il tono dello spettacolo non è uniforme e ciò fa sì che l’artista riesca a comunicare quello che non potrebbe altrimenti esprimere col solo linguaggio. Bianchini passa, ad esempio, dalla confidenza seria e dal racconto crudo della sua esperienza all’uso dello scherzo o dell’apologo ironico, anzi spesso demenziale – come quando racconta dei giochi assurdi che faceva in ospedale, durante il periodo di riabilitazione, per passare i minuti, le ore e i giorni che non sembravano passare mai. Si tratta di un’efficace metodo di straniamento, che evita di incorrere in una lettura unilaterale del rapporto di un malato con il suo dolore. Si tende in genere a descrivere la malattia in maniera esclusivamente tragica, ponendo cioè l’accento solo sui lati oscuri e foschi dell’evento. Bianchini pone in evidenza, invece, anche gli aspetti involontariamente comici di chi è affetto dalla malattia e, di conseguenza, il carattere paradossale di una simile esperienza. Il dolore induce il malato e chi gli vuole bene sia a patire profonde inquietudini e angosce, sia ad attuare comportamenti da clown e atti molto spiritosi, che fanno sinceramente ridere di gusto. L’esperienza della malattia risulta assai più complessa dei nostri discorsi, che la mostrano solo come tragica e terribile, quando vi sono, di contro, anche aspetti risibili.
Vi è poi un altro elemento profondo dello spettacolo di Bianchini che vale la pena sottolineare. In maniera leggera ma chiara, l’attore introduce a circa metà dell’opera un paragone tra l’esperienza della malattia con il mito di Adamo ed Eva, che mangiando il frutto proibito furono scacciati dal paradiso e, tuttavia, conobbero tutto e uscirono in un mondo più vasto di quello che avevano finora abitato. Come i due antichi e mitici progenitori, il malato cronico di Bianchini perde certo l’innocenza, poiché diventa di colpo cosciente della sua fragilità ed esperisce qualcosa che la maggior parte degli esseri umani spesso non attraversa mai, ma nello stesso tempo coglie anche con maggiore nitidezza quello che la realtà ha da offrirgli e aveva rischiato di perdere. Ancora una volta, l’artista attua un forse voluto processo di straniamento, che sottolinea la complessità delle due esperienze, da noi interpretate spesso in modo unilaterale. Le perdita dell’innocenza e le malattie sono spesso viste come eventi esclusivamente negativi. Bianchini rimarca il potenziale positivo delle due esperienze, ossia il guadagno in termini di conoscenza e di vitalità che esse comportano.
Il fatto che poi l’artista abbia rappresentato tutto ciò a teatro fa sì che – oltre al malato – divengano consapevoli anche gli spettatori, senza essere passati per l’esperienza della malattia. Chi guarda al dolore che non si riesce a restituire a parole permette, paradossalmente, di ricordare delle esperienze che non si è mai attraversato, traendone solo i vantaggi nascosti.