Maledetti a ripetere. Herla King di Pennacchia-Licatalosi

di Enrico Piergiacomi

Herla King

di Francesco Pennacchia
con Sergio Licatalosi e Francesco Pennacchia
foto Alessandro Pagni

Visto al Lo Spazio Dodo di Colle Val d’Elsa, 21 aprile 2017

L’arte della recitazione è per natura condannata alla “replica”. Ogni attore deve (ri)proporre ogni volta che ne ha occasione il suo lavoro di fronte a un pubblico e (ri)percorrere la sua composizione scenica, nella speranza di riuscire a (ri)trovare la carica vitale e poetica che diede luogo per la prima volta al suo atto creativo. In questo senso, chi pratica l’arte della recitazione assomiglia a un personaggio delle fiabe o del mito. Molti dei personaggi fiabeschi o mitici (come ad esempio Sisifo) furono del resto condannati a ripetere all’infinito un’azione, di cui faticano a (ri)conoscere il vero significato.

Herla King di Francesco Pennacchia e Sergio Licatalosi esplora questo preciso nesso tra la recitazione, la condanna a ripetere e la fiaba / il mito. Il titolo stesso allude a un antico racconto della mitologia tedesca (ma più in generale al motivo medievale della Mesnie Hellequin, da cui derivare lo Charivari), che narra di un re che, per aver accettato l’invito a una festa da uno strano nano dai piedi caprini, fu condannato insieme al suo seguito a (ri)percorrere in eterno una caccia «macabra e festante». Tra gli uomini al seguito del re, vi erano anche due attori, interpretati appunto da Pennacchia e Licatalosi, che non fanno altro che (ri)raccontare con infinite variazioni la storia della loro sventura. Essi ora la rappresentano mimando la folle cavalcata del re, ora raccontandola direttamente al pubblico convenuto, ora alludendovi con alcuni esercizi di training, e così ad libitum.

La scelta degli aggettivi «macabra e festante» non è certo casuale. Essi connotano, infatti, oltre alla caccia del re, anche l’attività stessa del recitare, o per meglio dire esprimono la sua natura ambigua. Da un lato, recitare è un atto “macabro”, perché vi è in esso qualcosa di disperante e inquietante. I due attori di Herla King scontano una colpa originaria e di cui non si conosce la ragione, in quanto né si sa l’identità del nano, né si capisce il motivo che avrebbe spinto quest’ultimo a condannare il re e il suo seguito a una ripetizione perpetua. D’altro canto, recitare è anche un atto “festante”, dato che gli spettatori ridono dei lazzi di Pennacchia-Licatalosi e riflettono sui molti temi sollevati dalla loro performance. La recitazione genera così disperazione e inquietudine, ma al tempo stesso conoscenza e piacere.

Le due dimensioni – la macabra e la festante – sono dunque tra loro intrecciate, tanto che si può supporre che separare l’una dall’altra avrebbe l’effetto di distruggere l’essenza stessa del teatro. Sarebbe un po’ come dividere l’idrogeno dall’ossigeno. Il problema che viene dunque sollevato in Herla King è perché il teatro manifesti una tale ambiguità e come mai le gioie che offre siano inseparabili dal dolore e dalla “morte della ripetizione”. A tal proposito, Pennacchia-Licatalosi ipotizzano all’interno dello spettacolo che un tempo si sapeva la soluzione, ma che l’umanità l’ha purtroppo dimenticata. Essi suppongono, infatti, che la storia del nano e l’essenza stessa del teatro erano conosciute dall’antico uomo di Neanderthal (se non anche prima), ovvero da un individuo dotato di una profondissima capacità immaginativa, che fu però sterminato dal nostro antico progenitore: il ben più furbo ma anche più insensibile homo sapiens sapiens. Il teatro e la storia del nano ci appaiono misteriosi, pertanto, perché soffriamo di un grave difetto di immaginazione, ereditato dai nostri padri. Quando l’homo sapiens sapiens conquistò la terra e sterminò i Neanderthal, la percezione estetica umana si indebolì. Cominciò così la catastrofe morale/materiale di cui ancora oggi facciamo ogni giorno esperienza.

Gli antropologi riferiscono, tuttavia, che nel nostro patrimonio genetico resta ancora un 3% di sangue di Neanderthal. Ciò apre la speranza che la capacità immaginativa di questo antico umanoide sia solo assopita, non già del tutto scomparsa. Provando e (ri)provando le loro composizioni, gli attori di Herla King potranno forse alla fine risvegliare le loro profonde capacità latenti e svelare il mistero del teatro. La maledizione a ripetere potrebbe costituire il mezzo per raggiungere il sapere autentico da cui il cosiddetto homo sapiens sapiens si sta inesorabilmente allontanando.