“Quasi-pianto”. L’arte del teatro di Elena Galeotti

Piangere è un artificio
Liberamente ispirato a Erodiade e Salomè
da Oscar Wilde, Giovanni Testori, Billy Wilder, Ken Russel
di Elena Galeotti
con Elena Galeotti e Ilaria Debbi
Luci Alessio Guerra
voce di Iokanaan Basilio Frongia
voce del Paggio Filippo Plancher
voce del Siriaco Riccardo Marchi
fantasma di Erode Modesto Messali
Uno speciale ringraziamento a Rita Frongia
visto il 31 maggio 2017 presso il Teatro in Villa - Villa Edvige Garagnani - Zola Predosa (BO)

di Enrico Piergiacomi

Piangere è un artificio di Elena Galeotti è un lavoro complesso e ispirato, liberamente ma rigorosamente, al pensiero di Oscar Wilde, Giovanni Testori, Billy Wilder e Ken Russel. L’opera costituisce, infatti, una riscrittura teatrale del mito di Salomè ed Erodiade, a cui i quattro autori appena ricordati hanno dedicato uno dei loro capolavori, senza però limitarsi ad essere solo questo. Essa è anche (forse soprattutto) un modo per riflettere sul teatro e sulla vita che – come scriveva Wilde ne Il critico come artista – tende a cercare espressione artistica, invece di limitarsi ad essere mera natura.
Il titolo del lavoro riunisce, a livello concettuale, due dimensioni tra loro a prima vista incompatibili. Da un lato, abbiamo la spontaneità, ossia la tendenza dell’essere umano a reagire immediatamente, sotto a un dato stimolo, in una determinata maniera. Il pianto rientra, infatti, secondo il senso comune, tra i fenomeni detti spontanei – sento un forte dolore, le mie lacrime scorrono a fiotti. Dall’altro, abbiamo la dimensione dell’artificialità, quindi del falso, dello studiato e dell’inautentico. Da questo punto di vista, pertanto, sempre secondo il senso comune, dire Piangere è un artificio significherebbe pronunciare una proposizione assurda, oltre che contraddittoria. Chi piange davvero non può mentire. Chi mente non può invece piangere, al massimo può simulare il pianto, per disonestà o, come nel caso dell’attore (direbbe ancora il senso comune), per darsi a un gioco poco serio.
Ma come «la matematica si serve talvolta dell’assurdo per giungere alla verità» (Robert Musil, L'uomo senza qualità, Milano, Mondadori, 1996, p. 736), così l’assurdità apparente del titolo di Galeotti può veicolare qualcosa di vero. Forse il punto è che un attore o un’attrice sanno piangere davvero. Il loro piangere studiato ad arte restituisce il pianto nella sua espressione pura, ovvero senza tutto quel che di banale, meschino e basso si prova quando si è in balia dei nostri dolori ordinari. In tal senso, la concezione apprezzata dal senso comune viene rovesciata. Il pianto “spontaneo” ha qualcosa di falso o menzognero, perché si trascina dietro della zavorra superflua, che inquina quanto di bello c’è nel gesto del piangere. Quello “artificiale” riesce, di contro, a restituire la bellezza di un essere umano punto dal dolore. Il pianto dell’attore o dell’attrice è allora, a ben vedere, un “quasi-pianto”: un pianto che ha in “meno” le componenti brutte e piccine del pianto quotidiano.
Tutto questo discorso astratto si manifesta, nella riscrittura del mito di Salomè ed Erodiade di Galeotti, tramite la scelta dei temi e della costruzione attoriale. I primi sono in sé piuttosto comuni. Si racconta, ad esempio, delle cure che una figlia giovane rivolge a una madre anziana e malata, che anche persone meno poetiche di Erodiade e Salomè – come Carla e Simona – hanno sperimentato o possono sperimentare. Gli spettatori hanno dunque modo di identificarsi con le due figure, poiché queste raccontano esperienze che quelli conoscono, o può loro interessare. La differenza è che, se la cura di una madre anziana da parte di una figlia giovane assume nella vita qualcosa di brutto, nella versione rappresentata in Piangere è un artificio manifesta solo il suo lato più vero e nobile. Il dolore che attraversa le figure della madre Erodiade accudita da Salomè acquista una bellezza che il rapporto tra Carla e Simona non ha, o ha solo in parte, grazie alle azioni artistiche che vengono rappresentate e ai ritmi della composizione scenica.
La costruzione attoriale “de-mitizza” consapevolmente, invece, il racconto di Erodiade e Salome, insieme alla sua accuratezza storica. Lo spettatore non vede in scena le due donne del mito. Osserva, piuttosto, un’attrice che recita Erodiade  (interpretata da Galeotti) e un’attrice nel ruolo di Salomè (interpretata da Ilaria Debbi), attraversate dalle ombre dei personaggi che hanno recitato e dal ricordo delle persone che hanno amato. Questo “attraversamento” apre degli squarci visionari che trascinano gli spettatori, a loro volta, in un mondo onirico, dove ad esempio Erodiade si trasforma in mostro androgino (metà donna – metà Erode) e in cui, di nuovo, si manifesta qualcosa di vero che la “realtà” quotidiana non possiede.
Piangere è un artificio tenta, insomma, il difficile tentativo di capire quale sia il confine tra vita e arte: tra la bruta esistenza e il tentativo di depurarla in bellezza, grazie al teatro. Per usare un paragone, potremmo pensare che l’artificio artistico che interviene sull’esistenza è come il gesto di Salomè di mozzare la testa di Giovanni Battista. L’attore o l’attrice toglie qualcosa alla vita per un supremo atto d’amore verso la vita stessa, che vuole baciare e contemplare nella sua amara bellezza.