Resistere e creare? Note sul paradosso di teatro e danza

Pubblico corpo
Terza edizione della rassegna Resistere e creare
Direzione artistica: Michela Lucenti, Marina Petrillo
Qui il programma completo

di Enrico Piergiacomi

Ci sono almeno due modi di interpretare la formula Resistere e Creare che dà il titolo alla rassegna omonima di danza internazionale, a cura di Michela Lucenti della compagnia Balletto Civile e di Marina Petrillo del Teatro della Tosse di Genova, giunta nel 2017 alla terza edizione dal titolo Pubblico Corpo. La prima e più immediata interpretazione riguarda la dinamica organizzativa. Secondo la lucida direzione artistica di Lucenti/Petrillo, Resistere e Creare si propone di contenere la (se non addirittura di opporsi alla) pressante richiesta che il sistema culturale italiano fa ad attori e danzatori: continuare a seguire i propri progetti creativi ma, al tempo stesso, farlo con scarse o nulle economie, in attesa che le attività diano i loro riconoscimenti e introiti nel futuro. Questo gesto di contenimento o di opposizione comporta una duplice strategia. Da un lato, Lucenti e Petrillo si propongono di mettere l’artista nelle condizioni di prendere il giusto tempo di poter creare ed entrare in diretta relazione con il pubblico, in altri termini di aiutarlo nell’attività di “resistenza” economica a cui il sistema culturale non fornisce sussidio. Dall’altro, Resistere e creare programma di informare gli artisti stranieri sulla condizione dell’Italia. Invitando compagnie più o meno note e di giro dall’estero, in particolare dalla Francia (tra i nomi, segnaliamo Anna Halrpin e Boris Charmatz), queste possono verificare direttamente come l’artista italiano impegnato nella creazione conviva con la quotidiana resistenza a difficoltà economiche e strutturali.
Su questo versante certo importante non mi soffermerò oltre in tale sede. Chi volesse approfondire, non dovrà far altro che consultare l’ottima intervista a Lucenti della collega e amica Viviana Raciti, già uscita sulla rivista Teatro e Critica (http://www.teatroecritica.net/2017/12/dirigere-un-festival-di-danza-resistere-e-creare-intervista-a-michela-lucenti/).
Passerei, dunque, al secondo modo di interpretare il binomio Resistere e Creare, di carattere più generale. Si può supporre che l’atto di “creare resistendo” o di “resistere creando” non denoti solo la richiesta del sistema culturale italiano al danzatore e all’attore. Forse è l’arte in senso lato che cerca di attuare simultaneamente un atto di resistenza e un atto di creazione. Diciamo, per fare un unico esempio, che le creazioni degli artisti resistono all’azione dissolutrice del tempo, perché propongono un pensiero o una visione del mondo che si mantiene oltre i secoli, tanto che alcuni tra i massimi creatori (Omero, Dante, Shakespeare, ecc.) ricevono il titolo di “immortali”. Ne segue che, anche nella migliore delle economie possibili, dove chiunque ha pieno agio di poter lavorare ai propri progetti, gli artisti resisterebbero sempre a qualcosa e, al tempo stesso, creerebbero sempre qualcosa d’altro. Tale condizione accomuna, pertanto, sia l’artista italiano che quello francese, anche se il primo incontra maggiori difficoltà rispetto all’altro nel dover fronteggiare le richieste di una società che chiede di convivere con una penuria cronica di risorse/opportunità.
Si tratta di un’idea che, sul piano intuitivo, risulta evidente e pacifica. Se ci soffermiamo, però, su ciò che i verbi “resistere” e “creare” rispettivamente descrivono, noteremo che la questione è ben più complicata. Il binomio resistenza/creazione che le nostre intuizioni comuni non trovano problematico contiene, in realtà, un paradosso, che cercherò di seguito di presentare e sviluppare.
Cominciando dal verbo “resistere”, si appura che esso descrive un moto passivo e centripeto. Un gruppo o un individuo resiste a qualche minaccia che proviene dall’interno (e.g., un cancro o una malattia) o dall’esterno (e.g., l’attacco di un animale o un essere umano), opponendo una forza superiore o almeno uguale a quella che subisce. Il verbo “creare” denota, invece, un moto attivo, centrifugo e finalistico. Si crea per qualcuno e in vista di qualcosa: per esempio, si crea un’opera (letteraria, performativa, ecc.) per un dato pubblico, in vista del suo divertimento, o della sua educazione, o di altro ancora. Già questa analisi circonstanziata mostra come resistenza e creazione sono per loro essenza contrari. Se l’una si difende e mantiene una posizione, l’altra avanza e cerca di uscire da sé. Se l’una individua un pericolo e vi reagisce, l’altra cerca l’incontro e dona qualcosa con generosità, sia esso un piacere, un pensiero, o qualunque altro effetto tangibile dell’attività creatrice.
Ora, poiché le energie di un essere umano sono contate e limitate, difficilmente accade che resistenza e creazione abbiano luogo in simultanea. Essi possono al massimo succedersi e collaborare, non già operare nel medesimo arco di tempo. Potremmo chiarire tale aspetto ricorrendo ad alcuni esempi certo banali ed elementari, ma non per questo poco eloquenti. Un soldato non può reagire a un assalto e al tempo stesso scrivere una poesia d’amore. Un nuotatore che si oppone alla corrente di un fiume non ha concentrazione necessaria per poter recitare simultaneamente i versi della Dodicesima notte di Shakespeare. Un malato terminale che cerca di resistere alla consunzione delle cellule interne provocate da un cancro e trova doloroso persino alzare una mano non riesce in quell’esatto momento a danzare, dando leggerezza e ritmo ai suoi movimenti. Le energie raccolte nell’atto di resistenza non possono essere usate di norma, insomma, in un atto di creazione, e viceversa.
Da questo punto di vista, il binomio negli esempi che sono stati addotti può essere solo «resistere o creare», tertium non datur. Eppure, in poesia accade che entrambe le attività abbiano davvero luogo insieme. Il poeta che diventa immortale e sospende l’azione dissolutrice del tempo opera un atto di creazione che coincide con uno di resistenza. Il paradosso è insomma il seguente: quelli che in alcune circostanze sono moti contrari e separati, nell’accadimento artistico risultano essere identici e unitari. “Resistere creando” o “creare resistendo” è normalmente un assurdo. In poesia, è un empirico dato di fatto.
La questione si complica maggiormente se torniamo ora allo specifico della danza e del teatro. Queste sono forse le arti più volatili tra quelle che gli esseri umani hanno coltivato lungo i secoli. Nel momento stesso in cui un attore o un danzatore compie il suo gesto creativo e ne fa dono ai convenuti spettatori, esso si esaurisce e non torna più, al contrario della creazione del poeta che rimane pronta per essere letta dopo intere generazioni. Ciò vale persino se esso dovesse venire replicato. Il gesto seguente sarà forse molto simile o pressoché identico al precedente, e tuttavia si rivolgerà pur sempre a spettatori diversi e avrà comunque delle piccole sfumature diverse, che lo distinguono da tutte le altre repliche possibili. L’atto del danzatore e dell’attore nasce per morire subito.
Ma ciò non significa altro che ammettere che teatro e danza sono tra le forme di creazione meno resistenti al tempo. Proprio per la loro estrema volatilità, i gesti di attori e danzatori sono paragonabili a qualcosa come un arcobaleno. Come quest’ultimo appare dopo una violenta tempesta e per la fortuita presenza delle condizioni di luce adeguate, ma si trattiene per una durata limitata, così teatro e danza sono evocati dopo un faticosissimo processo creativo, oltre che in presenza di un pubblico attento e curioso, quindi rimane nello spazio di un minuto o un secondo, forse persino di un attimo. E se le cose stanno così, risulta allora difficile capire come danzatori e attori possano opporre una qualunque forma di resistenza verso qualcosa. Un arcobaleno non ha consistenza sufficiente per fermare una palla di cannone e per durare nel tempo. Mutatis mutandis, nemmeno teatro e danza riescono ad opporre resistenza alla guerra / alla dissoluzione, a causa della loro apparizione tenue e fugace.
Fermandoci dunque a riflettere su quanto detto finora, possiamo dire che questi sono i principali risultati del ragionamento. Anzitutto, si è appurato come “resistere” e “creare” denotino in genere due atti tra loro opposti e separati. Si è quindi notato che alcune forme d’arte, come la poesia (ma ora potremmo aggiungere la pittura, la scultura, ecc.), riescano con la creazione a produrre un simultaneo atto di resistenza, per esempio creando qualcosa che combatte la dissoluzione del tempo. Infine, si è visto che teatro e danza rappresentano un’anomalia negli stessi processi artistici. Essi sono forse le sole forme d’arte che lasciano nulla o poco dietro di sé, e che quel “poco” che pure appare non resiste la durata di un giorno. Riassumendo tutto in una formula, teatro e danza sono apparentemente creazioni prive di resistenza: un “creare” senza “resistere”.
Come leggere, a sua volta, quest’ultima conclusione? A seconda dei punti di vista, potremmo interpretarla positivamente o negativamente. Una lettura negativa è che, proprio perché non procurano alcuna forma di resistenza, teatro e danza sono per loro natura inferiori alle altre arti. L’artista performativo è l’artista più inutile tra gli artisti: non ci dovremmo aspettare dalle sue creazioni la stessa forza che si riscontra, invece, in altri tipi di opere artistiche. Una lettura positiva è invece che i gesti delicati / evanescenti che hanno luogo col teatro e con la danza potrebbero essere dotati di maggior valore, rispetto ai testi di poesia, ai dipinti, e via dicendo. Se si spendono tante energie intellettuali/emotive/organizzative e ci si ostina a farlo entro un contesto culturale privo dell’adeguata assistenza economica per evocare qualcosa che dura un attimo o poco più, vuol dire, forse, che quegli stessi gesti portano con sé una vitalità che non si trova altrove.
Anche di questo si può fornire una possibile prova empirica. Dopo la lettura di anni di una grande opera poetica, come i ventiquattro libri dell’Iliade di Omero, solo pochissimi versi restano vivi nella memoria e nella fantasia: quelli che veicolano immagini particolarmente belle e un qualche dettaglio vivace. Il resto viene dimenticato, o si trasforma in nozione e in conoscenza generica. Il gesto di un attore o di un danzatore (a volte anche un loro intero spettacolo) rimane invece impresso nella sua interezza nell’interiorità dello spettatore, o quanto meno è percepito con maggiore vitalità e attenzione, nell’atto stesso in cui viene evocato dall’artista. E anche con l’analogia proposta prima si può ricavare un concentrato mini-argomento. Tra le piramidi che dopo secoli sono ancora visibili in Egitto e un fugace arcobaleno, è il secondo che risulta essere più affascinante e capace di attirare l’interesse di un osservatore esterno.
Si potrebbe infine menzionare, ma è un discorso che meriterebbe maggiore approfondimento, che in realtà potrebbe forse essere stato affrettato il pensare che teatro e danza non resistano in alcun modo al tempo. I gesti di un attore e un danzatore muoiono nell’atto stesso in cui avvengono. Tuttavia, se è vero che rimangono ben più profondamente impressi nella memoria e nella fantasia rispetto (e.g.) all’Iliade omerica che si articola in ventiquattro libri, allora essi sono creazioni che “resistono” tanto a lungo nel tempo, quanto dura la vita degli spettatori che li hanno visti o ascoltati. Senza uscire dai confini del festival da cui siamo partiti, potremmo confermare questo punto con un rapidissimo confronto con due delle performances di danza che hanno avuto luogo al suo interno. La prima (Impronte di Balletto civile) presenta ogni sera delle brevi improvvisazioni di danza tra un danzatore improvvisato e un volontario tra il pubblico, ciascuna delle quali ambisce – come da titolo – a lasciare un segno profondo nei due partecipanti. La seconda performance (Danse de nuit di Boris Charmatz) si pone invece come un’opera che non vuole significare nulla, bensì intende essere una coreografia dove «emergono parole fantasma e gesti che ci infestano e che non possiamo (né vogliamo) evitare» (trad. mia). Seppur molto diversi tra loro, entrambi i lavori corroborano il punto che ho lanciato e debbo lasciare in stato di abbozzo. I gesti di attori e danzatori sono come impronte o fantasmi che, dopo essere entrate/i nell’anima di uno spettatore, restano lì e non smettono di “infestarla”, per lasciarla solo con il sopraggiungere della morte dell’individuo.
Resistere e creare è, in conclusione, un binomio assai problematico, che queste poche osservazioni hanno solo superficialmente sfiorato, soprattutto quando viene applicato alla danza e al teatro. Ma ne è anche uno molto stimolante e produttivo, oltre che eticamente rilevante, su cui varrebbe riflettere meglio e ancora. Si spera allora che il festival a cura di Lucenti e Petrillo possa continuare a sua volta a “resistere” e “creare”, ossia consenta ad altri futuri artisti nuove possibilità di resistenza e creazione.

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Si segnala che l’attività di collaborazione tra il Teatro della Tosse e la compagnia Balletto Civile proseguirà a febbraio con la rassegna “La parola che danza al Teatro della Tosse”:  tre spettacoli tra teatro e danza. Fino all’11 va in scena in debutto nazionale “Il Maestro e Margherita”, di Emanuele Conte e Michela Lucenti e a seguire “Bad Lambs”, dal 13 al 15 febbraio e “Nell’Aere/Inferno #5”, il 17 e 18 febbraio, entrambi firmati da Balletto Civile e qui nelle prime tappe del loro tour (in via di definizione). Tre creazioni che raccontano di un teatro che non ha paura del “contagio” e che, anzi, lo ritiene la maniera più sensata per restare vivo.
A seguire, si segnala la rassegna Passaggi, dal 29 al 31 marzo 2018, per parlare della morte, senza imbarazzi né timori. Un argomento che spaventa, fa riflettere, divide, e suscita emozioni forti. Nata in collaborazione con l’associazione di volontariato Braccialetti Bianchi, che opera al San Martino e offre accompagnamento e sostegno ai malati terminali e alle loro famiglie, la rassegna ospiterà spettacoli che hanno per tema la morte raccontata con serietà e ironia.