Ritorno a casa di Pinter, ovvero, lo spettatore spiazzato

Ritorno a casa di Pinter, ovvero, lo spettatore spiazzatodi Sandra Pietrini

Al Teatro Piccolo Grassi di Milano è andato in scena a dicembre Ritorno a casa (The Homecoming) di Harold Pinter, uno dei drammi più cupi e feroci del drammaturgo inglese scomparso da alcuni anni. Il regista Peter Stein ha realizzato lo spettacolo nell’amata Spoleto, avvalendosi della traduzione di Alessandra Serra. Al centro del dramma l’idea della famiglia, che non è il luogo degli affetti ma un ring impietoso in cui si svolge una lotta sotterranea, un vero e proprio gioco al massacro che soltanto il finale rivela pienamente.

Il vecchio padre, dissacrante e provocatorio, conduce le fila di questa lotta, ma sarà infine egli stesso vittima di una logica perversa, che lo vedrà implorare un bacio dalla giovane moglie del figlio tornato a casa, Teddy, un pacato e razionale professore universitario. Ruth, l’unica donna della famiglia, innesca suo malgrado un meccanismo implacabile di annientamento reciproco nei maschi del gruppo, che riscoprono la loro natura primitiva e conflittuale. E Teddy sarà costretto ad andarsene da solo, lasciando Ruth in pasto ai familiari avidi e privi di scrupoli, che progettano di farla prostituire e alternarsi nel suo letto. Ma la nota più inquietante, abilmente sottolineata dal regista, è il capovolgimento di ruoli, dai toni quasi strindberghiani, messo in atto dalla donna, che accetta e volge a suo vantaggio la situazione imposta dal gruppo. E così una spietata e perversa legge della giungla, in cui il sesso è il motore delle azioni, la vede trionfante e sovrana nel finale, con gli uomini ridotti a bestiole bisognose d’affetto ai suoi piedi. 
Peter Stein conduce lo spettatore in questo percorso creando una sorta di suspance, o di continua raggelata attesa, come reazione al disagio di un battagliare continuo di cui non si intravede il senso. La volgarità caustica e sprezzante del padre, l’ingenua brutalità del figlio boxer, la spregiudicatezza rapace dell’altro, gli ambigui ricordi dello zio: tutto assume un carattere vagamente malsano, che tuttavia non si risolve propriamente nella patologia e resta sospeso, in attesa di un detonatore. L’arrivo del figlio lontano, il più sano del gruppo, insieme alla moglie, innesca la miccia destinata a esplodere nel finale. Che resta tuttavia una sorpresa, anche grazie alla scelta del regista di lasciare alla messa in scena un carattere ‘aperto’, che non fornisce immediatamente le chiavi di lettura della sua interpretazione. 
Cercherò di spiegare meglio cosa intendo. Seduto accanto a me, a teatro, c’era un signore di mezza età con la moglie, che durante tutto il primo atto ha accompagnato i dialoghi sarcastici fra il vecchio e i suoi figli con continue risate. Non aveva la più pallida idea di cosa stesse andando in scena, come ha candidamente affermato a una mia domanda sulla durata dello spettacolo; il tipico spettatore che si reca a teatro attratto dal titolo, o da un qualsiasi altro elemento della locandina, o semplicemente per il fatto che ha una serata libera. Anche altri spettatori accompagnavano le battute con qualche risata breve qua e là, che sembrava più un omaggio allo spettacolo che una reazione sincera. A lungo mi sono domandata se il fatto che io non provassi il minimo impulso a ridere dipendesse da una mia cattiva disposizione o da altri motivi. Poi credo di aver compreso la natura di queste risate, che del resto avevano anch’esse qualcosa di innaturale e quasi raggelante. Abituati ad assistere a situazioni simili nelle sit-com, molti spettatori hanno creduto di trovarsi di fronte a una commedia brillante, seppure poco riuscita; ricca comunque di battute incalzanti che richiedevano una reazione consona al genere. In verità l’analogia con le sit-com era del tutto apparente, come la messa in scena ha rivelato gradualmente nel secondo atto, dove le risate sono quasi del tutto cessate, e poi in modo eclatante nell’inatteso finale. Ma durante tutto il primo atto non si poteva fare a meno di chiedersi quale fosse il senso dei dialoghi e delle azioni dei personaggi, sempre in bilico fra il grottesco e l’iperrealismo. 
Sto forse esagerando nell’attribuire importanza alle aspettative del pubblico? Non credo. La chiave di lettura di spettacoli che scardinano le logiche del genere, trasformando una commedia brillante e scanzonata in una tragedia quasi ancestrale, fondata sullo scontro fra i sessi, non può essere trovata facilmente da spettatori abituati ad altri linguaggi. E a lungo mi sono domandata, senza riuscire a trovare una risposta, se la scelta interpretativa di Peter Stein non fosse di per sé discutibile, in quanto fondata su segni non abbastanza chiari, o se invece fosse proprio questa sua capacità di spiazzamento l’intima forza dello spettacolo. Rendere mediocremente fruibile uno spettacolo a un livello (quello della sit-com) che non è quello dell’interpretazione complessiva è un valore positivo, che aggiunge qualcosa all’insieme, o un indice di mancata omogeneità ed efficacia interpretativa? Quando lo scarto non è così deciso, come può essere in altri casi, si rischia di lasciare lo spettatore in bilico. Il finale, tuttavia, è talmente riuscito da illuminare tutto il resto. E offre agli spettatori più accorti, che conoscono il dramma, una sorta di riscatto finale nei confronti di un pubblico forse deluso nelle sue aspettative, ma sconcertato e scosso dal potere spiazzante del teatro.