Scegliersi un buon padrone. La passione secondo Carullo-Minasi

Marionette, che passione!

di Piermaria Rosso di San Secondo
adattamento e regia Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi
con Giuseppe Carullo, Cristiana Minasi, Gianluca Cesale, Manuela Ventura, Alessandra Fazzino, Ciccio Natoli
produzione Teatro Stabile di Catania
foto Antonio Parrinello

di Enrico Piergiacomi

Nei libri I e VII delle Leggi (644e-645c, 804a-b), Platone costruisce per la prima volta – almeno stando alla documentazione che ci è pervenuta – il paragone dell’umanità con marionette mosse da fili di un dio burattinaio. Il filosofo identifica i filamenti con le passioni, foggiati con vari materiali. Alcuni fili sono di ferro o bronzo, perché non guidano che verso un’unica direzione e verso una meta poco pregiata. L’ira conduce, per esempio, alla vendetta, l’invidia al macerarsi per i beni altrui. Altri fili sono invece d’oro, quindi più duttili e capaci di condurre a qualcosa di prezioso. Per Platone, questi filamenti di eccellenza consistono nell’obbedienza alla legge e alla giustizia, che conducono alla felicità e alla virtù. La cosa migliore per l’umanità sarebbe dunque lasciarsi guidare dai fili d’oro e migliori, recidendo quelli di ferro e bronzo che portano a precipitare nel vizio.
In un certo senso, dunque, questa metafora sancisce e nega al tempo stesso il libero arbitrio. Nessuno ha capacità di muoversi da sé. Se ogni filo/passione dovesse per assurdo essere reciso, il movimento stesso verrebbe cancellato. L’uomo-marionetta al massimo sarebbe guidato da spinte, urti e folate di vento che arrivano dall’esterno, ma più probabilmente cadrà a terra come un corpo morto. Nessuno è perciò libero di non farsi muovere da un filo. D’altro canto, la libertà è comunque tutelata perché ciascuno di noi può scegliere di farsi guidare da uno dei molti fili che ci tirano. Il paradosso è, insomma, che essere liberi significa rendersi schiavi della passione migliore e abbandonarsi a un padrone buono, invece che a uno cattivo.
La metafora platonica avrà una larga fortuna dall’antichità a oggi, arrivando anche a Rosso di San Secondo, autore di un testo godibilissimo e misterioso come Marionette, che passione!. Il lavoro trasforma in farsa e meditazione esistenziale il classico topos del triangolo amoroso. Un uomo dal completo grigio ascolta il proposito di due disperati – un signore in lutto abbandonato da sua moglie, una signora che ha lasciato il marito che la picchiava e che copre i lividi con un visone di volpe azzurra – di liberarsi della propria passione andando a vivere insieme e dimenticando i propri amori infelici. L’uomo in grigio dapprincipio cerca di dissuadere i due personaggi perché sa che il loro proposito risulterà fallimentare, perché la passione è troppo forte e potrà al massimo essere contenuta per qualche tempo. In seguito, egli però si unisce alla tresca amorosa dei due disperati, nell’illusione che la signora con la volpe azzurra possa farlo ricominciare a muovere con fiducia nel mondo: l’amore per lei sarebbe come un filo di un burattinaio che può condurlo a un minimo benessere. I piani di questo improbabile triangolo sono però destinati a sfumare. Il marito della signora in volpe ritroverà la donna in un ristorante con i due uomini e quella tornerà dall’amato che l’ha picchiata. La sua passione per l’uomo è più forte di ogni altra emozione, o persino della corda della ragione. Il signore in grigio chiosa quindi tutta la storia con una nota pessimistica. Cosa migliore per l’essere umano sarebbe recidere ogni corda, anche quelle d’oro e virtuose che Platone aveva invece lodato, insomma suicidarsi. L’uomo è convinto che, dopo essere stati travolti a lungo da numerose passioni, noi troveremo infine il coraggio di recidere la vita – questa marionettista da strapazzo che ci procura solo cruccio e disperazione, che gioca male con le sue povere pedine.
La direzione di Marionette, che passione! è dunque insieme nichilistica e comica. Ma è anche una riflessione sotterranea sul teatro. C’è infatti un momento eloquente in cui la dimensione meta-teatrale di questo testo si mostra con particolare evidenza. È il punto in cui il signore in grigio recita il monologo sulla disillusione e sulla desiderabilità del suicidio, accennando al fatto che, quando la passione scemerà e si sarà ridotti a marionette che si muovono senza passione, l’unico sollievo che si potrà trovare sarà l’atto di recitare: «Sentirà un gran bisogno di discorsi... di parole... Ascolterà la sua voce come quella d'un altro, d’un cattivo attore rompiscatole… Le parrà che sia il vento a entrare dentro il suo petto vuoto e a farle fischiare folate di corbellerie». Il teatro è perciò una forma di nichilismo, un modo impietoso di ridere e deridere le passioni sia proprie che altrui, perché non si ha modo di scegliere la morte, unica alternativa sensata al marionettistico gioco della nostra specie. Esso si differenzia, inoltre, per San Secondo, dal gioco con le marionette per la seguente ragione. Gli spettacoli marionettistici si basano su attori appassionati, il teatro di persone vuote di ogni emozione.
Dal 6 all’8 luglio 2019, al Castello Ursino e con la produzione del Teatro Stabile di Catania, la compagnia Carullo-Minasi ha messo in scena per la prima volta al mondo Marionette, che passione!, con la sua consueta grazia e serietà, esaltando due aspetti principali della farsa tragi-comica di Rosso San Secondo. Da un lato, la rappresentazione rende fisicamente evidente la metafora della passione come un filo che guida noi uomini-marionette. Al posto di una recitazione realistica, infatti, gli attori recitano sulla scena esattamente come dei burattini, dunque come simboli e non come persone di carne/sangue. Li vediamo appesi a delle baracche del burattinaio fintanto che non è arrivato il loro momento di calcare il palcoscenico. Assistiamo agli attori che si muovono e parlano dentro delle piattaforme semovibili in ferro, che ritagliano un palcoscenico nel palcoscenico dove le marionette danno mostra della propria miseria. E infine, osserviamo all’esplicitazione di ogni cosa (il nome dei personaggi, il luogo, ecc.), attraverso delle piccole cartellette messe sulla scena o indossate dagli attori, che mostrano in modo chiaro allo spettatore che ciò che si sta vedendo è un gioco e un’illusione. Carullo-Minasi segue, a tal riguardo, un’indicazione scenica che Rosso San Secondo dà verso la fine dell’opera. All’attore che interpreta il signore in lutto, che ha cognizione di non poter continuare la sua tresca con la donna con la volpe azzurra, il drammaturgo prescrive di «cascare a sedere come una marionetta cui sia stato reciso il filo». Questa azione fisica sarebbe stata difficile da recitare, se non si fosse costruito sin dall’inizio l’impressione che i personaggi sono appunto pupattole mosse da fili.
Il secondo aspetto esaltato dalla messa in scena da Carullo-Minasi è il già citato carattere meta-teatrale del testo. Cristiana Minasi a un certo punto recita il breve monologo della signora con la volpe azzurra in cui confessa il suo inesausto amore verso il marito. Ciò che differenzia la sua esecuzione da quella prevista dal testo è però l’allusione che il vero oggetto del discorso è il teatro. Anche questi è infatti un amante desiderato e che ci picchia, che si cerca di fuggire e al quale, tuttavia, torniamo umidi di desiderio dopo un periodo anche breve di astensionismo:

E l'ho amato, l'ho amato con tutto lo spasimo delle mie fibre! Tutti i sacrifizi del mondo avrei sopportato per lui! Io cercavo d'indovinare i suoi pensieri, di leggere i suoi desideri; non apriva bocca ch'era già appagato... Dio!... Dio!... Forse gli ho dato troppo... forse l'ho saziato di me... M'ha tradita, sì, sì... ne sono sicura... e poiché io urlavo e spasimavo... m'ha battuta. Voleva ch'io sopportassi! Sopportare, comprende?... Ah, no, fuggita! Sono fuggita! Non dovevo forse fuggire?

Questa allusione ha soprattutto il merito di attenuare il nichilismo per molti aspetti esasperante dell’originale di Rocco San Secondo. La morte non è l’unica soluzione tanto alla passione selvaggia di noi marionette, quanto al palliativo della recitazione senza emozione del signore in grigio. È forse sempre possibile rendersi schiavi di un teatro buono, lasciarsi guidare dalla corda d’oro della bellezza che porta al piacere estetico, alla conoscenza, al coraggio di farsi migliori di come siamo. Il giusto mezzo tra la vita della marionetta e le smorfie del cattivo attore, disgustato di sé e della vita, è dunque il teatro di poesia. Un teatro che Carullo-Minasi – ma in realtà molti altri artisti della scena contemporanea – continuano nonostante tutto ad evocare, sugli scalcagnati spazi della cultura italiana in declino.
Scegliersi come padrone la corda d’oro dell’arte teatrale minaccia spesso, tuttavia, di tramutarsi in un filo di ferro e bronzo. La difficoltà del teatro sono tante e tali che, spesso, un artista può pentirsi della sua schiavitù. C’è dunque un rischio che bisogna cercare di tenere da conto e affrontare con lucidità. Da uomini e donne che si occupano con cura/attenzione del teatro, noi corriamo sempre il pericolo costante di scoprirsi, un giorno, per processi mentali invisibili alla nostra coscienza, di essere trasformati in signore e signori in grigio.

Post scriptum: La riflessione su Marionette, che passione! si è basata sul testo originale di Rosso San Secondo e sul video integrale della compagnia, non sulla visione di una delle date dello spettacolo di Catania. Di qui il limitato approfondimento. Ci si augura di aver prima o poi modo di vedere questo lavoro dal vivo, in una prossima replica.