Spettatori e critici: una convergenza difficile?*

Prof.ssa Sandra Pietrini (Università di Trento)

* Il testo ripropone l’intervento a un convegno organizzato dalla Co.F.As. di Trento, dal titolo La qualità sulla scena, poi pubblicato in “Teatro per Idea”, 4, aprile 2012, pp. 4-8.

Stabilire dei criteri con cui valutare gli spettacoli teatrali non è un problema di semplice soluzione. È difficile farlo per qualsiasi prodotto artistico, ma in modo particolare per il teatro, che è composto di vari elementi: il testo, la regia, la recitazione, la scenografia, le luci, e così via. Alla realizzazione del prodotto estetico finale concorrono dunque vari registri espressivi, che vanno valutati singolarmente ma anche in rapporto all’insieme dello spettacolo. 

Un pregiudizio costante riguarda la preminenza del testo fra gli elementi che costituiscono lo spettacolo. In questa prospettiva, il valore letterario dell’opera drammatica sarebbe un criterio fondamentale per stabilire la maggiore o minore qualità di uno spettacolo. Ma si tratta appunto di un pregiudizio. Si può infatti ricavare uno spettacolo bellissimo da un testo mediocre e uno spettacolo pessimo da un capolavoro di Shakespeare. Certo, giudicare uno spettacolo sulla base del testo è più facile anche perché è un elemento che permane, mentre tutto il resto è di per sé effimero. Ma come ha affermato uno storico del teatro, Ferdinando Taviani, ritenere più importante un elemento solo perché è l’unico che rimane sarebbe barbarie.

In verità molta critica teatrale, anche quella attuale, continua a soffermarsi molto sul testo, senza peraltro valutarlo in rapporto all’interpretazione, come si dovrebbe invece fare (perché altrimenti si fa della critica letteraria). Il testo può essere un punto di partenza, ma ciò che conta è l’interpretazione che ne viene data dal regista e dagli attori; perché, ripeto, da un testo modesto si possono ricavare anche buoni spettacoli e viceversa.

Lessing, che per molti aspetti può essere considerato uno dei padri fondatori della critica, scrive addirittura che i testi mediocri sono migliori per l’attore, poiché gli danno più facilmente modo di dimostrare le proprie capacità. Si può ricordare che Lessing scrisse, nella seconda metà del Settecento, la Drammaturgia d’Amburgo (Hamburgische Dramaturgie), cioè una rassegna degli spettacoli teatrali del Teatro di Amburgo, in cui svolgeva appunto la funzione di Dramaturg, occupandosi dei testi e del loro adattamento. Le riflessioni di Lessing contenevano in origine molte osservazioni sulla recitazione, che però vennero eliminate a causa delle proteste degli attori, che non gradivano molto giudizi e interferenze sul loro operato. Per fare solo un altro esempio, piuttosto lontano dal primo, anche Gustavo Modena, il famoso attore patriota dell’Ottocento, scrive che gli attori tedeschi recitano spesso testi di scarso valore, che però riescono a valorizzare al massimo.

Connesso all’idea della preminenza del testo, un altro pregiudizio che ci ha accompagnato almeno fino al Novecento, è che il testo contenga in qualche modo la propria messa in scena. La pensava così anche Pirandello, che non fu soltanto un autore drammatico, ma si occupò della messa in scena delle proprie opere, entrando in rapporto diretto e talvolta in conflitto con i suoi attori, come Angelo Musco (dal quale si era visto alterare pesantemente le proprie commedie). Pirandello, che difende la creazione artistica dell’autore, ritiene che la messa in scena non possa essere che un’approssimazione e un inevitabile travisamento del testo. In Questa sera si recita a soggetto afferma, per bocca del proto-regista Hinkfuss: «L’unica sarebbe se l’opera potesse rappresentarsi da sé». Il dramma conterrebbe già la sua messa in scena ideale, che andrebbe semplicemente estrapolata e trasposta sulla scena. Secondo questa prospettiva, ci sarebbe dunque un’unica rappresentazione corretta di un determinato testo. Ma si tratta di un’idea infondata, poiché ogni opera drammatica contiene moltissime messe in scena possibili. Anche restando totalmente fedeli alle parole del testo se ne possono per esempio dare interpretazioni molto diverse fra loro (variando le azioni degli attori, la mimica, i toni della voce, ecc.). Ciò che si dovrebbe valutare, quindi, è il rapporto fra il testo e l’interpretazione che ne è stata data.

Com’è noto, la messa in scena di un testo è adesso il principale compito del regista. Ma non è sempre stato così. Nell’Ottocento era affidata ai singoli attori, che concepivano la loro parte in modo sostanzialmente indipendente, attribuendo alle prove, spesso frettolose, la mera funzione di raccordo fra le varie parti. Si trattava quindi di un’interpretazione sempre parziale, senza quella concezione unitaria dello spettacolo che arriverà soltanto con l’avvento del regista. Gli attori erano per certi aspetti registi di se stessi, al punto da rielaborare il testo anche in modo sostanziale. Si potrebbe citare l’esempio estremo di Frédérick Lemaître, un attore francese degli inizi dell’Ottocento che si distinse in un genere molto particolare: il mélo o mélodrame, ovvero i drammi a forti tinte che imperversarono per una ventina d’anni sui teatri dei boulevards, i teatri parigini che si contrapponevano alla scena ufficiale della Comédie Française. Erano drammi di forte impatto emozionale, quindi molto graditi al pubblico popolare, ma comunque apprezzati anche dalla borghesia. In un dipinto di Boilly, intitolato L’effet du mélodrame, una donna sviene su un palco nell’assistere a una di queste rappresentazioni strappalacrime, alle quali si andava anche per spaventarsi e commuoversi. Lemaître raggiunse l’apice del successo recitando in questo genere, di cui paradossalmente decretò però anche la fine. Come attore rimase legato per tutta la vita a un personaggio, quello di Robert Macaire nell’Auberge des Adrets, un classico villain, ovvero il cattivo della situazione (nello specifico un bandito evaso di prigione che, insieme al suo compare, arriva in un albergo e vi compie un omicidio per impossessarsi di una grossa somma di denaro). Siamo nella Parigi del 1823. Dopo le prime rappresentazioni, Lemaître cominciò a dare una svolta ironica al suo personaggio, nel senso che ne accentuò di proposito gli aspetti più truci, fino a renderlo quasi caricaturale. Ne portò talmente all’estremo i tratti da scatenare infine delle folli risate, come risulta evidente dalle recensioni della critica, che a distanza di un mese sembra descrivere due spettacoli completamente diversi. All’inizio si parla di personaggi abietti, crudeli, che suscitano orrore, e di situazioni commoventi che fanno fremere gli amanti, ma già dopo qualche settimana si fa riferimento a una vena comica, sempre più evidente, arrivando a parlare di una comicità irrefrenabile scatenata fra il pubblico. Lemaître capovolse dunque totalmente il senso del testo, riscrivendo in sostanza la pièce sulla scena. Si tratta di una sorta di drammaturgia d’attore, di una reinterpretazione creativa del testo che decreterà, come dicevo, la fine del genere, poiché da allora in poi non fu più credibile, essendo diventato la parodia di se stesso.

Ho citato questo esempio anche per un altro motivo. La rappresentazione dell’Auberge des Adrets, che ebbe un enorme successo sia dal punto di vista del pubblico che della critica, era basata su un testo a dir poco mediocre, tanto che era scritto a più mani. Si potrebbe paragonare alle attuali telenovelas, cioè a dei testi composti mettendo insieme situazioni, temi e caratteri di facile presa sul pubblico, ma del tutto privi di qualsiasi valore letterario. Eppure, nella storia del teatro sono spesso proprio questi i testi che diventano, in un modo o nell’altro, un banco di prova fondamentale per l’attore, come appunto diceva anche Lessing nel secolo precedente.

Come in altri casi, nell’Auberge des Adrets la convergenza fra critica e pubblico fu totale. Ma non sempre si ha questa concordanza, come è ovvio, e vi sono spesso forme spettacolari apprezzate dal pubblico ma disdegnate dalla critica. Qual è in questo caso il giudizio di cui occorre tenere maggiormente conto? Quello degli spettatori, che sono pur sempre il destinatario degli spettacoli, o quello del critico, che dovrebbe possedere maggiori competenze? Di certo i critici dovrebbero possedere maggiori competenze in materia. Ma anche gli spettatori possono essere più o meno ‘informati’. Innanzitutto si potrebbe fare una distinzione fra quelli che hanno letto il testo e quelli che non l’hanno letto. I primi, paradossalmente, hanno un pregiudizio di fondo, anche se sono un pubblico molto più competente, che si avvicina un po’ ai critici, poiché possono dare un giudizio sull’intepretazione, ovvero sul rapporto fra testo e messa in scena. Il pregiudizio deriva dal fatto che, conoscendo il testo, tendono ad aspettarsi una certa messa in scena, cioè hanno una loro idea (a volte inconsapevole) che si sono fatti leggendo il dramma e che si attendono in qualche modo di ritrovare sulla scena. E quindi la loro delusione può derivare da una mancata aderenza a questo modello ideale che si sono creati.

Il giudizio degli spettatori resta comunque fondamentale. Come diceva un critico dell’Ottocento, Francisque Sarcey, «il pubblico ha sempre ragione per l’ottimo motivo che è il pubblico». Intendeva dire che a giudicare della teatralità di uno spettacolo non può essere che il pubblico, perché se lo spettacolo non funziona per il pubblico fallisce il suo intento. E in un certo senso bisogna ammettere che l’affermazione ha una sua logica. Perché, in fondo, chi è il critico? È innanzittuto uno spettatore anche lui, e quindi è un individuo, una sola testa. E allora si potrebbe citare un’affermazione ancora più radicale di quella di Sarcey, fatta nel secolo precedente da un autore drammatico italiano, Gaspare Gozzi, noto per le sue favole teatrali e per la sua rivalità con Goldoni. Afferma dunque Gozzi: «il critico teatrale deve tenere per fermo che tanti capi adunati in un luogo solo formano un cervellone superlativo, al cospetto del quale ogni altro cervello particolare è un nonnulla». Quindi il pubblico sarebbe addirittura questo “cervellone superlativo”, che essendo formato da più teste non può che avere ragione (insomma, una sorta di dittatura della maggioranza, se vogliamo, dando per scontato il fatto che tante teste non possono essere che nel giusto, come invece spesso non è).

D’altra parte, è abbastanza invalsa anche la concezione opposta, che considera il pubblico quasi una massa ignorante e becera, dotata di gusti volgari che gli attori cercano sovente di compiacere, e vede invece nei critici gli unici detentori di un’oculata capacità di giudizio. Le lamentele sui gusti grossolani del pubblico sono per esempio ricorrenti nell’Ottocento. Devo precisare che non è un caso se traggo molti esempi di queste mie riflessioni da quest’epoca, poiché nel XIX secolo il teatro era davvero un fenomeno di massa, capace di attrarre un pubblico molto eterogeneo, che comprendeva anche le classi popolari, e di costituire allo stesso tempo un tema di forte interesse per letterati, studiosi, politici, ecc. Giovanni Pindemonte, che avrebbe voluto elevare il teatro italiano, educando attori e pubblico, riteneva per esempio che fossero proprio i gusti dozzinali della maggioranza degli spettatori a corrompere la qualità delle rappresentazioni, inducendo i comici a istrionismi volgari. E persino un attore come Tommaso Salvini, nel criticare colui che era stato il suo maestro, Gustavo Modena, dirà che «a volte indulgeva in gesti grossolani», appunto per compiacere il pubblico.

La relazione fra critica e pubblico è da sempre controversa. È tuttora piuttosto radicata la convinzione che fra le due categorie ci sia una frattura quasi incolmabile. Più costruttiva è l’idea che il critico, che ha a disposizione più strumenti e competenze, debba educare il pubblico. Ma quali sarebbero infine le competenze del critico, oltre ovviamente al fatto di aver letto l’opera (cosa che qualsiasi spettatore può facilmente fare?). In linea di principio il critico dovrebbe aver assistito ad altre messe in scena del testo (almeno nel caso dei testi più spesso rappresentati), il che gli consentirebbe di istituire dei confronti fra le diverse interpretazioni, fra la recitazione degli attori, la scenografia, ecc. Del resto, dovrebbe anche conoscere più approfonditamente questi elementi, per valutare in che misura, per esempio, l’attore impieghi in modo tecnicamente raffinato la propria voce e la mimica. A tal fine, dovrebbe conoscere anche la storia del teatro, ovvero l’uso che dei vari elementi è stato fatto nel corso delle diverse epoche. E tuttavia, le sue conoscenze potranno essere solo un ausilio ‘tecnico’ alla funzione fondamentale, che è la formulazione di un complessivo giudizio estetico. Ma riprenderemo questo concetto fra poco.

Mi preme prima ricordare che la critica teatrale nasce nel Settecento in Inghilterra e in Francia, con la diffusione della stampa periodica, ma ha poi una storia abbastanza discontinua. Si possono fra l’altro distinguere i critici “regolari”, cioè i professionisti, dai critici occasionali o comunque non di mestiere, che spesso sono più attenti, più acuti e più imparziali dei primi, talvolta in aperto conflitto di interesse con determinati attori o compagnie. Nell’Ottocento, per esempio, a volte i critici di professione erano anche agenti teatrali e avevano interessi economici in gioco. Fra i critici “irregolari” si possono fra l’altro annoverare anche grandi nomi come Émile Zola e George Bernard Shaw, che ci hanno lasciato pagine illuminanti sulle rappresentazioni a cui hanno assistito.

Come ogni spettatore, anche ogni critico ha comunque un punto di vista soggettivo, perché il giudizio estetico è sempre tale. E a questo bisogna rassegnarsi. Della possibile esistenza di valori oggettivi grazie ai quali si possano dare giudizi estetici si discute già in un saggio del 1967 di Serge Doubrovsky, uno storico francese di origine polacca, secondo il quale non esistono, appunto, dei parametri di valutazione rigorosamente oggettiva. Ce li possiamo inventare, possiamo cercare di teorizzarli, ma non esistono di per sé. Mi rendo conto che può sembrare una sorta di dichiarazione d’impotenza, ma in verità è solo una lucida constatazione. Ciò non significa, tuttavia, che si debba rinunciare a formulare giudizi che abbiano un qualche fondamento, ovvero che poggino su argomentazioni e non su semplici impressioni. Se non esistono criteri oggettivi, esistono pur sempre dei criteri più o meno opportuni da impiegare per giudicare un’opera d’arte teatrale o un’opera d’arte tout court. Anzi, per certi aspetti il teatro offre più possibilità di individuare possibili criteri di giudizio rispetto a un dipinto astratto o a un’installazione, poiché il teatro è anche artigianato, almeno nella misura in cui è fatto di corpi, movimenti e voci.

Ma volgiamoci ancora una volta alla storia per fare un esempio. Nell’Ottocento la critica teatrale si concentra molto spesso sulla recitazione, proponendo anche distinzioni molto sottili, per esempio quella tra concezione ed esecuzione. Cos’è la concezione di un personaggio in rapporto all’esecuzione? Sembra una nozione molto astratta, poiché si riferisce al lavoro a monte che l’attore svolge nella sua stanza, cioè in maniera del tutto autonoma e individuale, non guidato dal regista che ancora non esiste, ma semplicemente trasportato dalla sua ispirazione. La concezione sta dunque alla base dell’interpretazione del personaggio e del testo, di cui l’attore si fa un’idea, un concetto ancora quasi astratto, che poi tradurrà poi in precise scelte esecutive, ovvero in una serie di gesti, atteggiamenti, toni e così via. Nel momento dell’esecuzione l’attore utilizza infatti i suoi mezzi espressivi per dare vita alla sua concezione del personaggio. La cosa interessante è che la critica teatrale dell’Ottocento è abbastanza raffinata da distinguere questi due momenti, tanto da affermare, per esempio, che la concezione del Re Lear di Rossi è decisamente superiore a quella di Salvini, ma che Salvini ha un’esecuzione più efficace. Occorre precisare che i grandi attori della seconda metà del secolo si ritrovavano spesso a recitare lo stesso personaggio e quindi era possibile valutare e confrontare la loro interpretazione.

Come si diceva, l’esecuzione corrisponde ai mezzi espressivi impiegati dall’attore per rendere una determinata situazione drammatica e un certo carattere, per esprimere uno stato d’animo o sentimento. Il teatro dell’Ottocento è fra l’altro un teatro fondato sulle passioni, cioè sull’espressione delle emozioni, per le quali c’è una sorta di vocabolario espressivo, codificato anche nei trattati. Grazie a questo vocabolario di passioni, nell’Ottocento l’arte dell’attore era molto più vicina all’artigianato e c’erano dei parametri di giudizio possibili in rapporto a questo vocabolario espressivo, che si riteneva universale. Per esprimere l’odio o l’amore, l’attore poteva ricorrere a una serie determinata di gesti, trascegliendo quello che riteneva più efficace alla situazione. Ma tutti erano immediatamente comprensibili al pubblico. Per fare un paragone con l’arte figurativa, proponevano una raffigurazione in cui la qualità estetica era data in primo luogo dalla capacità di riprodurre fedelemente o in modo credibile la realtà (seppur all’interno di determinate convenzioni, così come un dipinto dal vero è pur sempre fatto di linee e colori che solo l’occhio traspone in termini tridimensionali). Ma ovviamente le cose si complicano quando si abbandona l’idea di una riproduzione del reale, avvicinandosi, in pittura, all’arte astratta. Analogamente, seppur in modo minore, molte rappresentazioni contemporanee hanno perduto i loro referenti semantici, ovvero l’analogia con un sistema di segni immediatamente comprensibile. Ma se l’arte non può essere valutata in base all’abilità tecnica dell’artista (per esempio la capacità di rappresentare forme e oggetti che sembrino veri in un dipinto, così come l’efficacia espressiva nel simulare emozioni credibili nella recitazione), su quali altri parametri si può valutare? Se ogni giudizio estetico contiene in sé un’imprescindibile soggettività, a partire dalle avanguardie del Novecento l’arbitrarietà ha raggiunto il culmine. Nell’Ottocento si possono avere dei punti di riferimento, una sorta di bussola, di mappa per giudicare per esempio il lavoro dell’attore, ma nel Novecento la cosa diverrà sempre più difficoltosa. Lo stesso fenomeno, amplificato, si ritrova nell’arte figurativa. Come si fa a giudicare il valore di una pittura astratta o dell’arte concettuale, dove non esiste più l’artigianato?

La questione è dunque molto complessa. D’altra parte, anche se il lavoro dell’attore potesse essere giudicato in base all’adeguamento a una codificazione espressiva, ovvero in base all’efficacia nel rappresentare gli stati d’animo del personaggio, non se ne potrebbero dedurre parametri rigorosi di giudizio estetico. Torniamo per un momento agli attori dell’Ottocento. Per valutare la qualità nella resa di un personaggio drammatico si potrebbe misurare l’adeguamento dell’esecuzione, ovvero delle scelte espressive, alla concezione. Se per esempio Ernesto Rossi ritiene, come si può ricavare dai suoi scritti, che Amleto sia un personaggio inquieto, cogitabondo e quasi roso dal verme del pensiero, dovrebbe poi nell’esecuzione riuscire a trasmettere questa sua concezione, sempre in base a quel vocabolario espressivo di cui si diceva. L’interpretazione del personaggio sarebbe dunque più o meno riucita a seconda dell’adeguamento di questi due piani. Peccato, però, che la concezione si ricavi solo a posteriori, dall’esecuzione, il che crea un irresolubile paradosso. Il rapporto fra concezione ed esecuzione fa inoltre emergere un’altra questione: l’intenzione dell’artista. Come diceva Dante, a volte l’artista può avere «l’anima dell’arte e man che trema», ovvero una concezione elevata e precisa di ciò che vorrebbe trasmettere ma una sostanziale incapacità di realizzarlo con i mezzi espressivi di cui dispone, siano essi la scrittura, il pennello o il proprio corpo, come nel caso dell’attore.

Mi sono soffermata sull’interpretazione del testo e su questi due momenti perché mi sembrano importanti. Ma le questioni sarebbero anche altre. In che misura, per esempio, un giudizio storico, fatto a posteriori, può essere considerato più attendibile di quello dei contemporanei? Si dice comunemente: ai posteri l’ardua sentenza, per alludere al fatto che il distacco critico che deriva da un allontanamento dal fenomeno può dare maggiori garanzie di attendibilità. Generi teatrali osannati dal pubblico e dalla critica, come il mélo, sono per esempio considerati importanti dagli storici dal punto di vista sociologico e della storia dello spettacolo, ma di modesto interesse estetico (sebbene rivalutabili per la recitazione di alcuni grandi attori, come il già citato Lemaître). D’altra parte, talvolta rappresentazioni di grande valore artistico hanno debuttato con un clamoroso fiasco. Il tempo, insomma, sembra risistemare le cose e permettere giudizi più ponderati. Eppure, a ben vedere, se valutare la qualità di uno spettacolo è difficile, giudicarlo a posteriori è ancora più arduo, poiché il giudizio deve necessariamente basarsi su testimonianze soggettive e documenti parziali. Anche questo è dunque un bel paradosso. Oltre che soggettive, le recensioni dei critici su cui fondiamo la nostra valutazione storica saranno inevitabilmente viziate dai parametri estetici dell’epoca, ovvero condizionate da molti fattori. In conclusione, ogni riflessione sulla valutazione dei fenomeni estetici, e più in particolare degli spettacoli teatrali, deve tenere conto di una serie di elementi disparati, che determinano limiti intrinsechi del giudizio e, quel che è peggio, limiti spesso dagli incerti confini. Se però teniamo conto di questi nodi problematici, rinunciando a ogni pretesa di formulare giudizi assoluti, possiamo tuttavia cercare di valutare gli spettacoli con la serena e fondata soggettività di chi conosce l’oggetto, gli elementi che lo compongono e il contesto in cui si colloca.