Un Esopo a tinte fosche. Su "Il Drago d’oro" di "Evoè!Teatro"

Il drago d'oro
di Roland Schimmelpfennig

Regia Toni Cafiero
Con Emanuele Cerra, Clara Setti, Marta Marchi, Silvio Barbiero, Paolo Grossi
Traduzione Stefano Zangrando
Assistente alla regia Paolo Malvisi
Disegno luci Alice Colla
Scenografie Lorenzo Zanghielli
Costumi Tessa Battisti
Tecnico luci Luca Brun
Foto di scena e progetto grafico Mirko Piffer

Un ringraziamento particolare a Michele Abbondanza
Vincitore del bando VETRINA DELLE IDEE per produzioni culturali originali 2018
Finalista del concorso nazionale FOREVER YOUNG 2018

Visto al Teatro Melotti di Rovereto, il 30 marzo 2019

di Enrico Piergiacomi

 

Viviamo in un periodo storico in cui risulta sempre più difficile credere alle favole e agli apologhi dal lieto fine. Questo genere narrativo richiede la fiducia nella possibilità che la realtà possa cambiare in meglio, o almeno che uno stato di cose intollerabile possa col tempo diventare un po’ meno duro da sopportare. Tale prospettiva è però difficile da accogliere nelle società europee (e non) di oggi, sospese tra il rischio presente del completo tracollo culturale-economico e lo scenario futuro della totale distruzione del pianeta che abitiamo. Le favole diventano così falsi miti da sfatare – narrazioni che bisogna rovesciare per imparare a guardare il mondo senza illusioni, nella sua nuda precarietà e violenza.
Il Drago d’oro di Roland Schimmelpfennig che Evoè!Teatro ha deciso di mettere di scena è un chiaro esempio di questa amara prospettiva estetica e politica. Lo spettacolo rovescia a tinte fosche, infatti, la favola attribuita sin dall’antichità al favolista frigio Esopo: quella della cicala e della formica. È noto che questo racconto esalti l’ideale del lavoro previdente, che rinuncia oggi ad alcuni piaceri per evitare incomodi maggiori in avvenire. La favola narra di come una cicala che aveva passato tutta l’estate a ballare e cantare si trovò costretta in pieno inverno ad elemosinare un po’ di cibo alla formica, che invece aveva trascorso l’anno a raccogliere provviste, e di come quella ricevette risposta negativa, insieme al rimprovero di aver sprecato il proprio tempo. Per il resto, il seguito della vicenda è lasciato aperto. Non sappiamo se la cicala sarebbe sopravvissuta o no all’inverno, se avrebbe trovato altri animali disposti ad aiutarla, se avrebbe imparato dal suo errore ad essere da qui in avanti più previdente. È il lettore che deve immaginare quale sarebbe stato il più probabile tra i futuri possibili.
Ora, lo spettacolo Il Drago d’oro colma questo vuoto narrativo. La vicenda narra di un’odierna cicala, ossia una giovane danzatrice vietnamita emigrata in Germania, che si trova costretta a chiedere aiuto a una formica contemporanea: un negoziante tedesco che decide di darle del cibo, a condizione di vivere nello scantinato del suo emporio e di lavorare per lui come una prostituta. Tra i molti scenari possibili, quindi, Schimmelpfennig segue forse quello più cupo. La cicala è per lui il simbolo dell’anima gentile e che ha talento nella danza o nella musica, le quali però non affascinano più nessuno. È del resto il suo corpo abbandonato ai più bassi istinti e non la sua arte a interessare le operose formiche della società contemporanea.
Gli altri personaggi della vicenda non sono, da questo punto di vista, che comprimari che mettono in risalto la degradazione della cicala e della bellezza che pure poteva portare al mondo. Troviamo ad esempio figure come il vecchio, l’uomo divorziato e il giovane fidanzato che sfogano su di lei le frustrazioni sessuali che hanno accumulato nel corso della loro vita tormentata. O ancora, scopriamo che esiste un fratello della cicala venuto dal Vietnam per riportarla a casa, ma che morirà prima ancora di iniziare a cercarla per uno stupido incidente: il dissanguamento seguito all’estrazione di un dente cariato ad opera dei suoi colleghi vietnamiti che, come lui, hanno trovato lavoro nelle cucine del ristorante “Il Drago d’oro”. Non esistono così sfumature per Schimmelpfennig. Il mondo di oggi si divide solo in vittime o carnefici, tertium non datur. Ed è solo il caso che destina a noi esseri umani l’uno o l’altro ruolo. Quello che è oggi la vittima di violenza o prevaricazione potrebbe essere l’aguzzino di domani.
Anche gli altri mezzi scenici ruotano intorno a questo tema fondamentale. Vale forse la pena evidenziare quello più appariscente, che aggiunge anche un altro elemento di analisi. Mi riferisco alla scelta di far interpretare agli attori i personaggi di sesso femminile e alle attrici quelli di sesso maschile. L’operazione sottolinea il disorientamento e la confusione a cui, secondo Schimmelpfennig, il mondo odierno è arrivato. Non c’è punto fermo nella società contemporanea, a cominciare dalla distinzione chiara almeno sul piano fisiologico tra uomo e donna, se non appunto il continuo esercizio della violenza del più forte sul più debole. Questo sembra costituire, anzi, l’unico elemento che continua a dare un po’ di vitalità alle formiche operose della nostra società. Schimmelpfennig sembra domandare allo spettatore: che cosa fa della sua vita il formicaio umano che pensa solo a come sopravvivere? La risposta è “nulla”, perché le formiche si sono concentrate sul compito di procurarsi il cibo per l’inverno, ma non di come riscaldare e alimentare il proprio spirito nei lunghi mesi freddi. Senza musica e poesia, ossia quel che di buono la cicala portava con sé, le formiche si scoprono essere del tutto impreparate a condurre una vita che va oltre la soddisfazione dei bisogni più materiali ed elementari.
Con una tale riscrittura della favola, Schimmelpfennig smonta così anche quel poco di ottimismo che pure era presente in Esopo. Il Drago d’oro non ricava infatti nemmeno una morale da questa tragica rappresentazione del mondo contemporaneo, né lascia spazio ad alcuna utopia alternativa. A dominare è solo la constatazione che questo non è un paese per cicale e che non c’è bellezza che duri a lungo in questa società-formicaio impazzita.
Si può certo obiettare che si tratta probabilmente di uno scenario esagerato, ossia più fosco di quanto non sia in realtà. Anche gli artisti della compagnia Evoè!Teatro smentiscono in parte la visione di Schimmelpfennig, usando la poesia del teatro per raccontare un mondo dominato dalla violenza e privo di poesia. Uno sguardo diretto sul mondo duro e pericoloso in cui viviamo è dunque impossibile, se non è almeno addolcito dalla sua rappresentazione sulla scena. La cicala non può allora forse più cantare, ma ha modo, nel chiuso dello scantinato in cui le formiche l’anno rinchiusa, almeno di sognare un’altra estate, e la fine di questo lungo inverno.