Una guerra spirituale. Gennaro Lauro e la sua "Sarajevo"

Sarajevo – La strage dell'uomo tranquillo

Idea e creazione: Gennaro Lauro
Assistenza: Elisabetta Lauro
Disegno luci: Gaetano Corriere
Coproduzione: Associazione Sosta Palmizi
Finalista del: Premio Equilibrio 2018
Selezionato per la: Vetrina Giovane Danza d’Autore – Anticorpi XL 2018
Sostenuto da: Impasse/Cie Greffe (Svizzera), Dansomètre (Svizzera), Lo Studio (Svizzera), La Ménagerie de Verre (Francia), L’Echangeur – CDCN (Francia)

Visto il 12 marzo 2018 nel Palazzo Chiericati di Vicenza, entro la seconda edizione della rassegna Danza in rete off del Teatro Comunale di Vicenza

di Enrico Piergiacomi

 

Alla parola “guerra” vengono di norma associati concetti appartenenti alla sfera della prevaricazione e della violenza fisica, tra cui: conflitto, armamenti, potenza, attacco, difesa, sangue, morte, distruzione. Esistono però altre nozioni che possono essere ricondotte a questo termine e che sono fatte oggetto di rappresentazione artistica nello spettacolo di danza Sarajevo – La strage dell’uomo tranquillo di Gennaro Lauro. L’artista ci parla, infatti, di una guerra “spirituale” o “immateriale”, ossia dei sentimenti che porta con sé una simile esperienza: solitudine, pericolo, disperazione, diffidenza, paura, fragilità, disamore per l’altro.
La parabola drammaturgica di Sarajevo spoglia, di conseguenza, qualunque facile riferimento a fatti di cronaca bellica e a racconti retorici di momenti di eroismo. Ciò che Lauro danza non è la battaglia tra due eserciti animati da un determinato obiettivo, tra un popolo aggressore e un popolo aggredito, dove vi è di necessità un vincitore e un vinto. Egli esprime la condizione sentimentale della guerra, in cui ci si potrebbe benissimo trovare anche in un mondo in pace e in cui nessuno corre alle armi. Persino in questa dimensione di assenza di aggressione fisica è sempre possibile sentirsi minacciati da qualcosa di impalpabile, non riporre fiducia nell’altro perché si crede che egli potrebbe tradirci per arrivismo, sentirsi soli dentro una folla di persone che ci spaventano per come parlano e come si muovono. La pace non è così necessariamente un sinonimo di assenza di violenza, né la guerra coincide sempre con lo stato di aggressione. Tutti possono guerreggiare contro tutti semplicemente alimentando sospetti e diffidenza, o vedendo l’altro come un nemico da cui bisogna stare lontani e non un alleato, né un amico.
Tutto questo Lauro lo esprime attraverso le movenze del suo corpo, che oscillano tra due estremi: il totale raccoglimento o nascondimento e la deflagrazione del movimento. Nel primo caso, accade che il volto, la postura e l’andatura stessa del danzatore si sottraggano alla vista di un osservatore esterno, da cui potrebbero provenire sguardi inquisitori e gesti invasivi. La deflagrazione del movimento avviene, invece, nel momento in cui la tensione arrecata dal sentimento di guerra non riesce più ad essere sostenuta. Lauro a quel punto cade a terra, sente il bisogno di correre, compie dei gesti sincopati e lotta con alcuni nemici invisibili – probabili proiezioni della mente dei potenziali pericoli che crede di avvertire nel mondo esterno. L’aspetto interessante è che quanto è stato da me malamente sintetizzato si verifica in uno spazio completamente vuoto, dove di fatto non c’è nulla che possa giustificare sia il nascondimento che la difesa, tanto la fuga quanto la reazione diretta. La danza di Lauro ci mostra così che il sentimento della guerra può aver luogo persino in una condizione di totale assenza dell’altro. In altri termini, un uomo isolato da tutto può arrivare a credere che persino il niente che lo circonda è una sostanza minacciosa e terribile.
Da questo punto di vista, Sarajevo è un titolo che può trarre in inganno. La mente che legge questa parola pensa immancabilmente alla strage dei mercati di Markale del 1994 e crede, almeno all’inizio, che la danza di Lauro sia un riferimento discreto e poetico a questo evento storico. A fare da antidoto è il sottotitolo La strage dell’uomo tranquillo, che specifica che forse quel che viene perso in questo conflitto bellico segreto è di altra natura. È la serenità degli uomini e delle donne che potrebbero benissimo vivere in amore o armonia reciproca che viene uccisa in questa guerra spirituale o immateriale. Si tratta, da questo punto di vista, di una guerra in cui non vi sono vincitori e vinti. L’esercito che combatte un conflitto fisico può almeno ricavare un terreno da coltivare, della ricchezza e del potere (fermo restando, però. che anche questi beni, rapportati alla totalità del tempo, si rivelano essere cenere e sassi senza valore). Chi è preso dal sentimento della guerra non guadagna invece nulla, perché è impossibile ricavare qualcosa dalla vittoria su un nemico immaginario e di trarre soddisfazione sottraendosi del tutto dal contatto altrui.
Non è tuttavia questa la conclusione definitiva della parabola drammaturgica di Sarajevo. Lauro terminerà, infatti, la sua performance abbandonando l’oscillazione tra il moto di nascondimento e quello di deflagrazione. Camminando a viso eretto e col volto scoperto davanti al pubblico, per poi inginocchiarsi con una postura eretta ma senza tensioni, il danzatore si apre a quel punto finalmente all’altro, vedendo in esso un’opportunità di crescita / dialogo e non più un potenziale aggressore. Al sentimento della guerra sopraggiunge, insomma, il senso del dopo-guerra: quella condizione in cui la dolorosa constatazione che tutto è andato distrutto prelude ora al momento della ricostruzione e della restaurazione. Ciò determina la nascita di un rapporto autentico con l’altro che risulta più forte dell’ordinario. E' infatti quando si arriva al punto di perderlo irrimediabilmente che si riesce ad avvertirlo con piacere e a restaurare la sua bellezza.
Se qualcosa di buono c’è nella guerra – spirituale e non – è, dunque, la sua capacità di innescare nei sopravvissuti il bisogno fisico ed emotivo di creare qualcosa di bello a partire dalle macerie. Dalla morte e dalla sfiducia può subentrare qualcosa che chi non ha mai sentito perdere la serenità non può nemmeno agognare. O, ad essere meno ottimisti e forse più realisti, dalla cancellazione dello stato di guerra potrà almeno subentrare il monito a vivere adesso evitando nel futuro un altro estenuante conflitto segreto, un’altra Sarajevo.