Wonderland, lo stupore e la vuota solitudine

Wonderland, lo stupore e la vuota solitudinedi Monica Anesi

Teatro Verdi di Bolzano, novembre 2016
regia di Daniele Ciprì
musiche di Stefano Bollani

Ci vuole tutta la notte di “buon consiglio” per trovare il bandolo e dare senso agli innumerevoli e disparati contenuti che investono, come uno tsunami, lo spettatore di Wonderland. Sconcerto, confusione, perplessità si alternano fino alla fine, seppure, talvolta, una certa consapevolezza prende corpo perché, a ben pensarci, quei pazzi esaltati che abitano il condominio di Wonderland potremmo essere pure noi.

Sei finestre aperte, sei mondi allucinati, rivelati, urlati da altrettanti personaggi sempre presenti sul palco, pezzi di puzzle che non si incastrano mai, solitudini accostate che comunicano apparenti nonsense. Ma non basta, ai lati del palco talora appaiono su due ovali le immagini di Alieno 35 (Gino Carista) e Alieno 70 (Giacomo Civiletti) che discutono tra loro di idiozie, amplificando così la fastidiosa sensazione di inutile vuoto. Altro protagonista importante è la Morte (Mauro Spitaleri) che incontra, ignora, o a seconda dei casi gioca, con la vita dei personaggi e spezza, con la sua calma, l’alternarsi concitato dei monologhi.
Così, tutta questa baraonda parrebbe un drammone insostenibile, ma Ciprì aggira l’ostacolo e imposta il lavoro teatrale sulla pseudo-follia, sull’ironia, su una recitazione appassionata e mai pedante. Si aggiungano poi le musiche, scritte ed eseguite dal vivo dal pianista Stefano Bollani che, come in un film muto, puntualizza e completa con grande bravura i profili dei diversi protagonisti. Intanto un monologo insegue l’altro interrompendosi proprio nel momento in cui pare che il racconto assuma un senso, così lo spettatore, ansioso di trovare un filo a cui appendere qualche piccola certezza, alla fine resta a bocca asciutta. Intrigante la singolare idea di distribuire al pubblico un binocolo, di modo che lo spettatore possa scrutare il condominio che gli sta di fronte, come James Stewart nel film di Hitchcock La finestra sul cortile.
La scena perciò si moltiplica e diventa metafora del reale, laddove nelle situazioni più drammatiche della vita null’altro si può fare se non osservare, allibiti e confusi. Probabilmente il senso dello spettacolo è anche questo, ma non è semplice arrivarci. Troppi sono gli stimoli, le citazioni, l’alternarsi continuo dei personaggi, troppe le frasi, le massime slegate e buttate lì, senza concedere il tempo di fermarsi per riflettere.
In questo condominio, sospeso nel tempo e nello spazio, ogni storia è un mondo a sé, ma tutte sono accomunate da un’ansia divorante. Alcuni monologhi poi, ad esempio quello della Sciuscià (Sara Putignano) o del Folle (Francesco Scimeni), sono letteralmente zeppi di citazioni di canzoni e film disparati, urlate ma slegate, pregne di significato se prese singolarmente, ma che risuonano vuote se ammassate le une alle altre. Una contemporaneità frammentata e famelica che traduce un’umanità bombardata da mille stimoli e che non riesce a cogliere il qui e ora. Emblematica a tal proposito è la scena della Morte che comunica al telefono al suo interlocutore la sua imminente fine. Questi però la confonde per un venditore di aspirapolvere e, volendo chiudere la conversazione le risponde seccato di non aver tempo da perdere.
Alla fine i presupposti che reggono questo spettacolo sono assai validi; peccato però che sia assente quell’alchimia che misura e alterna tempi e spazi, così da rendere non solo comprensibile, ma anche pregnante ciò che si guarda. Tutto infatti galleggia in superficie e i contenuti, per quanto profondi, alla fine sfuggono, perdendosi in esistenze affannate, illusorie e senza speranza. Che sia questo alla fine il vero messaggio di Wonderland