Giudicare l’attore ieri e oggi*

Prof. Luigi Allegri (Università di Parma)

* Il testo ripropone l’intervento a un convegno organizzato dalla Co.F.As. di Trento, dal titolo La qualità sulla scena, poi pubblicato in “Teatro per Idea”, 4, aprile 2012, pp. 9-13.

L’intervento della Prof.ssa Pietrini mi ha fornito una serie di sollecitazioni e suggestioni che per il momento tralascerò. Magari ne possiamo parlare in un secondo intervento, se ci sarà, perché ci sono cose davvero interessanti. Partirei però dall’ultimo punto toccato dalla Prof.ssa Pietrini, dalla sua domanda senza risposta.

Perché quella domanda è necessariamente un punto da cui partire: non ci sono regole per giudicare la qualità estetica, per il teatro così come per la pittura o qualsiasi altra “arte”. Non ci possono essere ed è bene che non ci siano. Non ci sono regole per molte ragioni, ma soprattutto perché altrimenti l’arte sarebbe qualche cosa di diverso da quello che è, perché la ridurremmo a matematica, dove due più due fa quattro e assolutamente non può far cinque o sei. Nell’attività estetica queste regole non ci sono. È bene allora porre la domanda, ma è anche bene partire dal presupposto che è una domanda a cui non riusciremo a rispondere. Quindi se qualcuno sperava che qui noi riuscissimo a rispondere a quella domanda, possiamo anche fermarci un altro po’ prima di uscire, ma quella speranza andrà delusa.

Un’altra cosa. Sentivo il vostro Presidente che nell’introduzione continua a ripetere «noi filodrammatici…». Bene, quell’espressione non mi piace. Perché filodrammatici? Mi piacerebbe che si dicesse «noi attori». Voi non siete degli attori professionisti, ma nel momento in cui fate teatro siete degli attori tanto quanto i professionisti. Il pittore che va a dipingere il paesaggio in riva al fiume non è che dice «io sono un pittore della domenica», dice «io sono un pittore perché in questo momento sto dipingendo». Voi allora quando siete in scena siete attori. Tra l’altro, nella storia del teatro, il rapporto tra dilettanti e professionisti è molto particolare. Solitamente, in moltissimi ambiti, c’è una gerarchia istituzionale, coi “professionisti” sopra i “dilettanti”, ma in teatro è capitato spesso che la qualità stesse dalla parte dei dilettanti e non dalla parte dei professionisti. Potremmo citare diversi esempi. Alfieri che si rifiutava di far rappresentare le proprie tragedie dagli attori professionisti che disprezzava (al massimo rispettava il grande Morocchesi) e le metteva in scena da solo con dei dilettanti. Pirandello ogni tanto se la prendeva con quelli che chiamava sprezzantemente «i signori professionisti di teatro» e anche lui si è messo a fare il regista per sfiducia nei loro confronti. Molti dei grandi momenti di svolta nella storia del teatro provengono da chi non è professionista. Gran parte dell’Avanguardia dei primi decenni del Novecento veniva da gente che non era professionista di teatro: erano spesso pittori architetti musicisti, certo professionisti, ma di altri ambiti, che sono entrati dentro al teatro rifiutandone le logiche tradizionali (il teatro era una grande piazza dove ci si ritrovava un po’ tutti, perché è evento, è la dimensione estetica più sociale e socializzante) e dunque ne hanno determinato i profondi cambiamenti, con una fortissima resistenza da parte dei professionisti.

Quindi siete degli attori, chiamatevi attori, portate l’onere, l’onore di essere attori nel momento in cui siete in scena; poi per il resto sarete ingegneri, studenti, operai e impiegati, ma insomma, in quel momento siete attori. Perché la parola “attore” non designa tanto una professione quanto un’attività. E siete attori con una qualità particolare, che a me piace molto, quella di chi fa le cose per passione, come chi si impegna nella protezione civile, chi fa volontariato alla Croce Rossa. Voi vi impegnate con passione in un’attività artistica.

Lasciamo quindi in fondo la questione della “qualità” e partiamo dall’inizio. Non farò certo la storia degli attori, vorrei fornire solo alcune indicazioni. Se però guardiamo la storia dell’attore, diciamo dal Rinascimento in avanti, c’è una continua tensione verso la “naturalità”, la “naturalezza”. Parole come queste si trovano molto spesso e ogni generazione fonda la propria specificità e la propria pretesa di andare avanti rispetto alla generazione precedente, proprio sulla volontà di essere “più naturale”. Curioso. C’è questa tensione verso il naturale, quindi in qualche modo verso l’imitazione della realtà. Però, se concretamente si va a vedere che cosa facevano e che cosa descrivevano quando facevano le prescrizioni per gli attori, ci si accorge che la prima preoccupazione vera è quella della forma. Ad esempio Goldoni, grande rinnovatore del Settecento, assegna alla commedia proprio la funzione di rappresentazione della realtà e per questo contesta e di fatto uccide la Commedia dell’Arte, che invece era “teatrale”, cioè tutta incentrata sul gioco teatrale. La grande riforma goldoniana consiste principalmente in questo, nella definizione di personaggi con caratteri psicologici specifici e per questo simili alle persone reali. Ma se si legge Il teatro comico, che è una commedia in cui c’è tutta una serie di precetti pratici di recitazione, si vede che Goldoni dà delle indicazioni molto tecniche e molto astratte. Dice (cito a memoria): «devi rendere sempre coerente quello che stai dicendo con il gesto della mano; se cominci un discorso con la mano destra, per esempio, non potrai finirlo con la sinistra». E perché? E perché non si possono usare tutte e due le mani, come prescrive Goldoni? E perché, sempre secondo quello che indica lui, è sempre meglio usare la destra che la sinistra? Perché? Evidentemente ci sono delle codificazioni dell’epoca, secondo le quali a teatro si doveva fare così.

Questo discorso della dialettica tra tensione verso la naturalità e forma lo troviamo in un altro esempio settecentesco, la teoria sulla recitazione di Diderot. Diderot contesta fortemente l’artificiosità della recitazione e per esempio apre una dura polemica con Madame Riccoboni, espressione del teatro della tradizione che viene da una famosa famiglia di attori italiani, nella quale contesta le codificazioni della gestualità (Diderot non aveva letto Goldoni, ma se l’avesse letto probabilmente avrebbe contestato anche lui), perché pretende che gli attori si comportino in modo “naturale”. «Quando compongo un dramma – dice (e cito ancora a memoria) - immagino l’azione, faccio entrare un personaggio, lo faccio agire sulla scena, lo faccio parlare, poi ne faccio entrare un altro, ecc., e solo dopo scrivo». Tutto perché il testo non sia un’opera letteraria ma prefiguri con naturalezza l’azione scenica (vorrebbe anche che si prestasse maggiore attenzione alla «pantomima muta», ossia a una gestualità che restituisca naturalezza agli attori non impegnati direttamente nell’azione, che solitamente restavano lì impalati mentre gli altri parlavano). Quindi, c’è questa tensione verso il realismo, tra virgolette. Però Diderot è anche l’autore del Paradosso sull’attore, un testo fondamentale di teoria dell’attore nel quale il punto cardine è che l’attore non si deve immedesimare nel personaggio, non si deve far sconvolgere dalla passione, ma deve solo imitare i segni esteriori della passione, mantenendo la mente fredda, perché soltanto se si mantiene la mente fredda si riuscirà a costruire con coerenza tutto il personaggio. Immedesimandosi nel personaggio e lasciandosi afferrare dalle sue passioni, si avranno dei momenti straordinari e dei momenti invece o di piattezza o di sbrindellamento. E dunque ciò che Diderot indica con questo discorso è sostanzialmente la ricerca della forma. Questo per dire che in tutta la storia del teatro c’è questa tensione, questa dialettica tra il teatro come luogo di rappresentazione della realtà e il teatro comeluogo della forma. Già a partire dal teatro greco, perché se pure Aristotele scrive che «il teatro è rappresentazione di azioni e non di caratteri», per quel che ne sappiamo il teatro greco è fatto di azioni ben lontane dalla rappresentazione della realtà come la intendiamo noi moderni. Però comunque questa tensione c’è. E in questa tensione il punto fondamentale è sempre che l’attore deve formalizzare la sua azione sulla base di categorie che sono diverse da periodo a periodo, da luogo a luogo, da filosofia a filosofia.

C’è comunque un momento di svolta, un momento in cui sembra ci sia qualche cosa che prevale sulla forma, ed è il momento che potremmo definire del naturalismo, a fine Ottocento. Bisogna prendere un pezzo di vita, prenderlo così com’è, senza farci operazioni sopra, e nudo e crudo trasportarlo sul palcoscenico se sei un teatrante, sulla pagina scritta se sei uno scrittore, sul quadro se sei un pittore, ecc. Senza interventi di abbellimento, di addolcimento, di contestualizzazione: prendi un pezzo di vita e lo collochi. A teatro l’esempio classico è quello di André Antoine, il grande regista naturalista francese che ha portato sul palcoscenico veri quarti di bue, in uno spettacolo ambientato in una macelleria. Come si può fare ad adeguare la recitazione dell’attore a questa poetica? Il tentativo estremo è quello di togliere la formalizzazione. C’è una polemica al riguardo, siamo nel 1902, tra Tommaso Salvini ed Ermete Zacconi. Salvini è un attore romantico, è il Grande Attore della seconda metà dell’Ottocento, amatissimo da Zola e da Stanislavskij (che sono i due grandi teorici del Naturalismo a teatro, uno con la teoria della scrittura e l’altro con la teoria e la pratica della scena). Zola scrive una recensione alla messa in scena di La morte civile di Giacometti (cavallo di battaglia di Salvini e testo tra l’altro amatissimo e molto rappresentato dai filodrammatici) in cui descrive con ammirazione la morte del protagonista nell’ultimo atto. Soprattutto loda l’«espressione di verità» della scena culminante, nella quale Salvini sta seduto su una sedia, a un certo punto si sbilancia e cade a terra vicino alla buca del suggeritore. Curiosa questa esaltazione della “verità” in una scena che a noi, solo a leggerne la descrizione, sembra invece molto “teatrale”, molto finta, molto caricata. Perché Salvini appartiene a quella generazione di attori che vuole ancora coniugare volontà di rappresentazione e forma. Lo dice bene ad esempio Ermete Novelli, un altro grande attore di quel tempo: «Arte e Natura debbono camminare appaiate […] tenendo bene in mente che poca arte e troppa naturalezza può far cadere l’attore e l’autore nella monotonia e nel barocco: troppa arte e poca naturalezza nell’eccesso contrario: nell’artifizio». O anche Adelaide Ristori, la grande attrice di quella generazione: «l’attore non si stanchi mai dello studio profondo dell’estetica che lo condurrà a non mai trascurare la ricerca del bello nelle sue manifestazioni perché il solo bello è vero; e se qualche vero non è bello, l’artista studioso e pensatore saprà trovare il modo da renderlo meno spiacevole».Ecco, in questa dialettica che questi attori chiamano tra “bello” e “vero”, il “vero” è l’istanza di rappresentazione e il “bello” è la forma.

In questo momento, nella seconda metà dell’Ottocento, siamo ancora a livello di un compromesso, in cui si cerca di salvaguardare sia la naturalezza, il tentativo di rappresentare la realtà, sia il bello, ossia l’istanza formale. Ad un certo punto, nel 1902, scoppia però una polemica con Zacconi, un attore di impostazione naturalista che pensa che a teatro si debba portare sempre la verità, quand’anche spiacevole. Proprio a proposito dell’ultimo atto de La morte civile, Salvini aveva operato delle modifiche sul testo, facendo morire il protagonista di crepacuore e non per avvelenamento, «per evitare lo sconcio di una morte anti-artistica e per non cadere nell’inverosimile», in nome di un «verismo artistico» lontano dalle «forme eccentriche» dei «giovani attori», come aveva scritto. Al che Zacconi risponde: «A noi attori moderni non è concesso strappo alla logica, alla verità, alla scienza. Quelle figure romantiche, che offrivano così largo campo all’intuito fantasioso e geniale, che l’illustre tragico chiama verismo artistico, noi dobbiamo rendere puramente umane, in obbedienza ai dettami della fisiologia e della psicologia». In sostanza è come se Zacconi dicesse a Salvini: tu puoi fare la bella morte perché il tuo modello non è la realtà, ma è la gestualità che c’è nelle statue e nei quadri, dunque un modello che è già estetico, che è già artistico. Io no, io non posso, io mi sono documentato e so che la stricnina produce degli effetti di un certo tipo (bava alla bocca, tremore) e io non posso non fare quegli effetti lì anche se sono brutti. L’articolo di Zacconi ha poi una chiusa molto netta e significativa: «Dopo ciò, il grande tragico sèguiti a “morire” come a lui piace e ci permetta di “morire” come dobbiamo». È straordinaria nella sua chiarezza questa frase. Salvini ha la libertà perché il suo punto di riferimento è l’estetica, e allora l’estetica (lo dicevamo prima) non ha regole. Quindi può morire come vuole. Vuoi la bella morte? Sei vuoi, fai la bella morte. Io che non ho queste regole, che ho come unica regola quella di seguire la realtà secondo ciò che dicono la psicologia e la fisiologia, io devo morire come devo, non posso che morire così.

Ecco allora, in quel momento, dal punto di vista dell’impostazione teorica c’è una frattura, nel contesto del discorso che facevamo prima. Non c’è più, come dire, la forma che viene prima di tutto. C’è il rispetto della naturalità, della realtà quotidiana (chiamiamola come vogliamo), che viene prima di tutto e fa aggio anche sulla forma, anche se quello che si fa e si presenta al pubblico è “brutto”, anche se non è gradevole. In realtà però, per tutta una serie di ragioni che non abbiamo il tempo di approfondire, quel punto di svolta lì, dal punto di vista dell’elaborazione delle teorie e della successione dei movimenti, dura pochissimo. Noi siamo abituati spesso a mettere i movimenti uno dietro l’altro, in una successione temporale: c’è il Naturalismo, poi il Simbolismo, poi ci sono le Avanguardie storiche… In realtà è una sciocchezza, proprio storicamente, perché il Naturalismo e il Simbolismo, ad esempio, sono pressoché contemporanei. Ma soprattutto perché un movimento e soprattutto le istanze ideologiche e sociologiche che lo determinano non si esauriscono quando ne nasce un altro. È pur vero che il Simbolismo, le Avanguardie dei primi decenni del Novecento vanno in direzioni del tutto diverse, in certo senso opposte, rispetto alla filosofia del Naturalismo. Ossia cercano a teatro non la rappresentazione della realtà ma semmai l’artificio, la sorpresa, oppure il mito o il sogno, o comunque tutto quanto è lontano dalla realtà quotidiana. Da questo punto di vista si può dire che le Avanguardie recuperano, ancor più di quanto non fosse accaduto prima, il senso della forma. Non c’è niente di più artificiale, di più lontano dal realismo, di più lontano dalla verosimiglianza di tutto il teatro novecentesco. Basta pensare alle Avanguardie come il Futurismo, il Surrealismo, l’Espressionismo, o al più grande regista del Novecento, a mio parere, che è Mejerchol’d. O anche a molta della drammaturgia contemporanea che prevede un tipo di recitazione certo non naturalistica. Quindi le punte alte della riflessione teatrale novecentesca vanno in una direzione diversa da quella del recupero della realtà della rappresentazione fedele della realtà e della verosimiglianza.

E però, c’è un fenomeno curioso. Se proviamo a chiedere (io l’ho fatto qualche volta) alla fine di uno spettacolo al pubblico non professionale (e qui c’è tutto il discorso del rapporto tra pubblico e critica, tutto il discorso che è stato aperto dalla Prof.ssa Pietrini, su cui magari potremmo tornare): «quell’attore lì era bravo?», molte volte la risposta è: «sì, è bravo perché non si vedeva che recitava». Oppure, al contrario: «no, è un cane, si vedeva lontano un miglio che stava recitando…». Ma l’attore ce l’ha scritto proprio nel contratto che deve recitare… Resiste in sostanza quest’idea (e qui si sta parlando di giudizi) che la bravura o la non bravura di un attore dipende dalla credibilità psicologica, dalla verosimiglianza della sua recitazione. Questo retropensiero sotterraneo ce l’abbiamo ancora noi oggi, 120 anni dopo che quella idea si è imposta sul panorama della cultura e, diciamo, un secolo dopo che la cultura più avanzata non la propone più. Eppure i nostri parametri sono ancora quelli lì, per grandissima parte. Qui si annida tutto un discorso che sarebbe bello fare, che mi piacerebbe fare ma che non faremo… Ma anch’io, seguendo l’esempio della Prof.ssa Pietrini, vorrei terminare con una domanda a cui non darò risposta, anche se forse qualche risposta si potrebbe dare: perché mentre la cultura teatrale va in una direzione, i parametri di giudizio del pubblico vanno in un’altra direzione e sono ancora dentro ad un orizzonte culturale che non è più quello che la cultura teatrale propone, da diversi decenni? Perché?