Ben fatto, mal fatto, non fatto: il problema della qualità in teatro*

Prof. Lorenzo Mango (Università L’Orientale di Napoli)

* Il testo ripropone l’intervento a un convegno organizzato dalla Co.F.As. di Trento, dal titolo La qualità sulla scena, poi pubblicato in “Teatro per Idea”, 4, aprile 2012, pp. 14-18.

La prima parte del titolo che ho scelto per questo intervento, “ben fatto, mal fatto, non fatto” è la citazione di un titolo di Robert Filliou, un artista francese del gruppo Fluxus, che l’ha attribuito ad una serie di opere tese a mettere in discussione la consistenza di prodotto dell’attività artistica. Per farvi capire di cosa si tratta, faccio riferimento alla prima di queste opere, quella per cui il titolo è stato coniato, che è esposta in una grande sala del Beaubourg a Parigi.

E’ un lavoro molto grande, di circa dieci metri, composto da tante scatole di legno disposte per sequenze di tre. La prima è dipinta completamente di giallo, con all’interno un calzino rosso; nella seconda la scatola è un po’ schizzata di giallo e c’è un calzino un po’ storto; nella terza non c’è niente. “Ben fatto, mal fatto, non fatto”. Nel resto delle scatole si replica questa sequenza, amplificando la nozione espressa dal titolo e rendendola una sorta di teorema.

E’ evidente che opere di questo genere rimettono completamente in discussione la nostra nozione di opera d’arte e, rimettendo in discussione la nozione di opera d’arte, ci obbligano a considerare in una nuova prospettiva anche i parametri del concetto di qualità, che vanno in qualche modo riassestati. Si tratta di una questione tipicamente e profondamente novecentesca. Se ho fatto l’esempio di Filliou è perché trovo molto stimolante il suo titolo, col gioco concettuale che sottende, ma il discorso può essere esteso a molte delle pratiche artistiche contemporanee, legate per lo più all’avanguardia. Più in generale, però, parlerei di un certo atteggiamento del Novecento nei confronti della qualità dell’opera, della fattura dell’opera, della consistenza dell’opera che travalica l’ambito ristretto dell’avanguardia e caratterizza il secolo in maniera più diffusa e complessiva.

Questo ci porta a farci due domande: la prima è se ci sono dei parametri se non oggettivi, perché forse il termine è un po’ limitativo, almeno scientifici, cioè in qualche maniera argomentabili, per valutare la qualità teatrale del teatro contemporaneo e, se ci sono tali parametri, a quali categorie li possiamo “appendere”, visto che diamo per presupposto che le categorie novecentesche abbiano spostato molte cose rispetto ai nostri codici di riferimento; la seconda domanda, legata alla prima, è se c’è un’unità di misura che consente di misurare questo tipo di qualità.

Quando ci poniamo il problema della qualità di un’opera d’arte entrano in gioco tre diverse sfere: la prima la chiamerei un po’ sommariamente la sfera emotiva, cioè l’impatto sullo spettatore. Il termine “emotivo”, in realtà è improprio, perché l’impatto con lo spettatore è emotivo ma anche intellettuale. Non dobbiamo fare l’errore di pensare allo spettatore come un animale istintuale che reagisce davanti allo spettacolo teatrale solo in una maniera viscerale. La sua è sempre anche una reazione intellettuale, che non esclude comunque l’impatto emozionale, come lo spettacolo si relaziona emotivamente con lo spettatore.

C’è poi una seconda sfera, che definirei invece di tipo intellettuale, totalmente o almeno specificamente intellettuale ed è l’impatto con il linguaggio, cioè quanto quel tipo di opera d’arte teatrale abbia saputo operare sui codici linguistici, spostandoli, aggiornandoli, e qui entra in gioco la dimensione del nuovo, della novità come qualità, come valore che noi attribuiamo ad un’opera d’arte.

La terza sfera, quella storica, riguarda l’impatto che una certa opera o certe opere d’arte teatrali hanno avuto sul processo storico. Magari questa sfera non la sperimentiamo sul nostro presente, ma è qualcosa da considerare perché nella valutazione di un’opera non possiamo considerare solo ciò che ci circonda, ma anche quanto ci precede o ci succede.

La tipologia delle questioni messe in gioco in queste tre sfere è diversa: da un lato c’è quello che Roland Barthes chiamava il piacere del testo, cioè il rapporto immediato con l’opera. All’estremo opposto c’è il valore storico di quello stesso testo. Le due cose possono andare d’accordo, ma possono anche non andare d’accordo. Possono sovrapporsi, ma possono anche non sovrapporsi. Ora, che cosa è successo nello sviluppo della teatralità contemporanea? Qualche cosa che mi sentirei, anche in questo caso, di sintetizzare un po’ brutalmente – sto ragionando un po’ per blocchi per facilitare l’argomentazione – parlando della dialettica fra due valori diversi. Il primo lo chiamerei “lo scarto”, il secondo “la confezione”. Che cosa intendo con il primo? Lo scarto è quanto distingue l’opera dal suo contesto, sia quello contemporaneo che quello che la precede. Si tratta, quindi, di un valore espresso dalla concezione, l’ideazione dell’opera teatrale.

Quanto all’altra, la confezione, toglierei al termine ogni possibile ombra negativa, e la considererei la capacità di una produzione ben organizzata. Scarto e confezione possono convivere ma possono anche nonconvivere. Ci può essere scarto anche in assenza di confezione, ci può essere confezione anche in assenza di scarto. La qualità la percepiamo in un caso e nell’altro o nella coincidenza delle due cose. L’elemento dello scarto è probabilmente quello che maggiormente ci stimola. Se andassimo a verificare, sulla nuova scena del Novecento il modo in cui è presente il termine “novità”, che corrisponde concettualmente allo scarto, scopriremmo che esso è stato introdotto per segnalare la necessità di un cambiamento continuo, l’impossibilità, addirittura nevrotica in certi momenti, di restare su una posizione acquisita e l’esigenza di spostarla, tale posizione, continuamente in avanti. Ma in realtà quella della novità è anche una storia vecchia della nostra cultura, la quale, parliamo della cultura teatrale ma potremmo estendere il discorso tranquillamente alla cultura artistica nel suo complesso, vive del concetto di novità. I prologhi delle commedie cinquecentesche, nel momento in cui ribadivano teoricamente l’adesione al modello classico, introducevano sempre l’elemento della novità come valore: non vi deve dispiacere se quanto vedrete è nuovo, troviamo spessissimo scritto, oppure: proprio perché questa commedia è nuova, è migliore rispetto a quanto fatto in precedenza. C’è, dunque, una memoria storica forte del concetto di “nuovo”, che coincide addirittura con la nostra identità culturale occidentale a partire dal Rinascimento, un momento cruciale di svolta, che centralizza moltissimo il tema della novità. Nel Novecento, però, questa novità diventa quello che potremmo chiamare un nuovo tematizzato, cioè non solo la conseguenza di una certa prassi (elaboro le cose in un certo modo e quindi poi alla fine risulta che sono nuove) ma una sorta di vera e propria scelta preliminare. Attenzione a non confondere questo atteggiamento con un giochetto intellettuale, la tematizzazione del nuovo è comunque un valore perché lavora progettualmente sullo spostamento del discorso artistico.

C’è, poi, un’altra conseguenza di questa fibrillante attenzione per la novità, il fatto che dovendo quasi per forza andare avanti, sempre più avanti, le arti si trovano ad un certo punto a fare i conti con i propri confini istituzionali, sentendo una sorta di insofferenza verso i limiti che tali confini hanno storicamente istituito definendo cosa è teatro, cosa letteratura, pittura, ecc. Nel corso del Novecento questi limiti e questi confini sono spessissimo messi in discussione. Cosa separa nel Novecento il teatro, le arti visive, la musica o la letteratura? Dov’è il confine? È difficile dirlo, e quindi è difficile parametrare o capire in che modo affrontare un discorso legato alla qualità. Oltretutto, nel corso del Novecento si è creata, in un primo momento programmaticamente e in seguito invece un po’ accidentalmente, una sorta di vera e propria spaccatura tra la dimensione sperimentale delle arti e l’esperienza corrente dello spettatore, con l’esito di un dialogo difficile tra arte e pubblico.

Detto questo dobbiamo assumere come concetto guida una cosa che è molto banale, ma è anche molto importante: la relatività del concetto di qualità: in un senso storico, perché è profondamente legato ai diversi contesti storici, e in un senso culturale perché se è indubbio che la qualità è qualcosa di intrinseco all’opera, ha sede anche nell’occhio di chi guarda. Non è insomma un dato che esiste in sé e per sé ma come relazione complessa, fatta di quanto un’opera mi coinvolge, ma anche di quanto sposta lo stato delle cose e di quanto impatta sulla storia.

Volevo fare a questo proposito l’esempio di uno spettacolo molto celebre nel teatro novecentesco, L’Antigone di Sofocle del Living Theatre. Lo spettacolo era stato realizzato da Judith Malina e Julian Beck recuperando l’antico testo di Sofocle attraverso la traduzione di Hölderlin e la riscrittura di Brecht. Di esso ci sono due versioni: la prima, quella originale, del 1967, la seconda, una ripresa, nel 1980. Lo spettacolo nel suo impianto era sostanzialmente identico, ma molti spettatori che hanno assistito ad entrambe le edizioni hanno spesso dichiarato: “Quella dell’80 è sicuramente molto bella, ma quella del ’67 era molto meglio”. C’era una qualità molto diversa, lo spettacolo era diverso. Ora, se vogliamo escludere il fatto che a tutti quanti noi quello che abbiamo visto in giovinezza sembra sempre più bello, più vivo, più intenso, per il solo fatto che eravamo giovani, poniamoci il problema se ci fosse, in quel giudizio, una qualche ragione, diciamo così, più oggettiva. Dello spettacolo dell’80 c’è un filmato, di quello del ’67 no. Io stesso ho visto in teatro il secondo, l’altro no. Allora perché ho scelto questo esempio? Proprio perché forse non potendo paragonare i due spettacoli possiamo evitare di limitare il discorso a cosa piace e a chi piace (a me piace più questo, a te piace più quest’altro), e invece bisogna cercare di ragionare e di porci il problema: quale potrebbe essere la differenza di qualità tra due spettacoli in cui i protagonisti (Beck e la Malina) erano gli stessi, la regia era la stessa, la struttura era la stessa, ma gli interpreti erano diversi? Qual è la dimensione di qualità che mettiamo in gioco?

E’ una questione particolare perché introdotta per uno spettacolo che si affidava a parametri espressivi fuori dell’ordinario e molto poco “tecnici”, almeno nel significato abituale che affidiamo al termine. Lo spettacolo si basava su una complessa e articolata partitura gestuale, che accompagnava e riscriveva il testo. Riguardo a questo, al modo, cioè, in cui la si eseguisse, il discorso sulla qualità potrebbe essere in una certa misura posto (anche se si trattava di una gestualità, per tanti versi, molto elementare) ma c’è un momento dello spettacolo, importante perché è l’inizio, che vorrei considerare perché ci obbliga ad affrontare la qualità da una prospettiva del tutto imprevista. In questa scena, della bellezza di quindici minuti e passa, gli attori entravano uno alla volta, si affacciavano sul palcoscenico e restavano immobili a guardare il pubblico. Nient’altro per più di quindici minuti. L’impatto era fortissimo. Allora chiediamoci, visto che lo spettacolo del ’67 sembrava ad alcuni molto più “bello” dell’altro, in cosa potevano essere più bravi quegli attori? E’ possibile essere “più bravi” in relazione a quanto accadeva in quella scena?

Poste così le cose, verrebbe da dire prontamente: no, è impossibile. E invece chiunque abbia pratica col teatro conosce quella sensazione particolare che proviamo quando entra un attore in scena. Entra e non fa nulla, eppure c’è chi ti colpisce con quel suo entrare e chi ti lascia indifferente. E’ fuori di dubbio che, volendo astrarre, quello che percepiamo è una diversa qualità. Ma abbiamo parametri per parlarne e valutarla o dobbiamo limitarci alla sola sfera emotiva? Per cercare di vedere se è possibile, non dico dare una risposta, ma affrontare la questione facciamo una piccola digressione, che poi tanto una digressione non è.

Uno degli elementi che normalmente noi tendiamo ad attribuire alla dimensione della qualità, è quella della tecnica. La tecnica, detto alquanto sommariamente, è un saper fare che garantisce, per utilizzare il termine di Filliou, il ben fatto. Quindi la tecnica è quanto permette di fare le cose come si deve e di ottenere un livello adeguato di quella confezione di cui parlavo in precedenza.

La tecnica, quindi, è sicuramente un valore importante e determinante, ma è il valore che ci consente di ragionare della qualità novecentesca di un’opera d’arte? Facciamo una metafora musicale: potremmo dire che l’assoluta padronanza della tecnica, in quell’ambito, sia l’assoluta padronanza dello strumento e potremmo aggiungere che, senza tale padronanza, non si può fare musica: se io non so suonare il pianoforte, non riesco a suonare.

E’ un’affermazione questa su cui possiamo essere tutti mediamente d’accordo, però quando siamo tutti d’accordo forse c’è qualcosa che non funziona. Poniamoci la domanda in una maniera differente: è sufficiente la padronanza dello strumento per saper far la musica? Ovviamente non è sufficiente. Facciamoci la domanda inversa: non padroneggiare perfettamente lo strumento impedisce di fare la musica? Forse in alcuni casi sì, ma non mi sentirei di darla come un’affermazione assoluta per il Novecento. Allora è probabile che evidentemente anche nel campo della musica le cose stanno un poco al confine. La tecnica è una condizione che garantisce la qualità, ma nel Novecento non è imprescindibile. Nel caso dell’opera di Filliou che tecnica c’era? E il suo non è un caso isolato, anzi è emblematico di un modo d’essere dell’artista contemporaneo. Lui inizialmente faceva il poeta, ha fatto poi l’autore teatrale, ha fatto l’artista, ma non sapeva mettere una matita su un foglio di carta. Quindi in realtà il suo rapporto con l’arte visiva è strano, perché la tecnica è tutta nella testa e non ne transitava niente nella mano.

Viene da dire che nessuna tecnica, nel Novecento, è un valore assoluto e che la tecnica non si risolve nel saper fare, nella perfetta esecuzione della confezione. C’è una dimensione diversa della tecnica che io ricondurrei alla dimensione della scrittura, cioè alla capacità che l’ideazione artistica ha di rendersi fatto, trasmissione di un’idea. Questa trasmissione può avvenire attraverso canali diversi, non riguarda tanto l’abilità manuale, la maestria esecutiva, quanto, piuttosto, il livello di ideazione. E’ una sorta di abilità mentale.

Volevo fare al proposito due esempi molto vicini a noi: uno è quello di Carlo Cecchi. Cecchi è uno dei nostri grandi attori, interpreti, registi, inventori di teatro, L’impatto della sua recitazione sulla sfera emotiva è sempre molto forte. Molto forte non vuol dire che piace molto, può anche essere assolutamente respingente, ma comunque colpisce. Quali sono gli elementi che caratterizzano Cecchi? Certo non si può parlare della dimensione della tecnica, non perché Cecchi non ce l’abbia, ma perché Cecchi non la usa. Allora cos’è che caratterizza il suo essere attore? Provo a fare un elenco di cose: la sporcatura delle intonazioni (un modo di dire la battura come buttato lì), la deviazione dalla parte (mentre sta recitando, Cecchi si distrae o finge di farlo scartando di lato rispetto all’azione narrativa), le effrazioni di ogni regola di palcoscenico (mette in difficoltà i compagni, toglie loro il terreno da sotto i piedi; i racconti di chi ha lavorato con Cecchi sono entusiasti e terrorizzati, tu vai in scena e quello magari ti manda a quel paese mentre stai dicendo la tua battuta e non sai da che parte prendere la situazione). Tutto questo nello spettacolo è estremamente vitale. Le continue incrinature in quella cosa importantissima di cui parlava Allegri prima, la forma, hanno un valore espressivo enorme. È come se Cecchi quando recita dicesse continuamente allo spettatore: mentre sto costruendo la forma la rompo, costruisco e rompo, costruisco e rompo. Per utilizzare un termine molto vecchio, antico, in modo un po’ improprio ma che mi sembra comunque adatto anche perché legato alla storia della recitazione, direi che Cecchi lavora sulla sprezzatura. Tutto quanto accade in scena è presentato con una disinvoltura addirittura ostentata che sciupa la forma per non darle un riscontro troppo accademico.

L’altro esempio che volevo fare è quello di Barberio Corsetti. Giorgio Barberio Corsetti è un regista che introduce negli spettacoli molto spesso movimenti di gruppo coreografici che hanno una caratteristica: sono un po’ dissonanti. Ricordo che tanti anni fa accompagnai a vedere una prova di Barberio Corsetti e del suo gruppo di allora La Gaia scienza, un critico americano. Quanto vide gli piacque ma non si capacitava di una cosa: “Perché vanno fuori tempo? Perché sembra sempre che sbaglino qualcosa nel movimento?”. Quanto accadeva era che tutti facevano la stessa cosa, ma un po’ sbagliata. C’era, insomma, la scelta, diversa quanto a strumenti linguistici ma analoga quanto ad intenzione rispetto a quella di Cecchi, di sporcare l’azione. Il movimento doveva essere eseguito lungo una linea coreografica, ma senza eccedere in precisione, anzi lasciando che il momento, il corpo, la personalità individuale avessero un peso decisivo, che emergessero come negazione dell’impersonalità coreografica.

Che cosa emerge da questi due esempi? Che il “mal fatto” diventa un valore estetico, se diventa patrimonio di scrittura. Se quei movimenti fossero stati tutti quanti eseguiti a tempo, si sarebbe prodotto un balletto convenzionale. Non lo sono e così il movimento diventa una forma espressiva. D’altronde se Cecchi recitasse “come si deve” sarebbe un attore come gli altri.

Ma avevamo lasciato gli attori del Living fermi nella scena iniziale dell’Antigone. Quegli attori sollevano una problematica ancora diversa. Perché quel momento dello spettacolo non si basava su una competenza della tecnica di tipo tradizionale, ma neanche sulla sprezzatura, sul disequilibrio, o qualcosa del genere. In fondo, se volessimo restare un po’ forse forzatamente dentro le tre categorie di Filliou, potremmo dire che quanto li riguarda è il “non fatto”. Semplicemente nella prima scena dell’Antigone gli attori non stanno facendo niente, o fanno qualcosa che apparentemente chiunque altro potrebbe fare.

Ho utilizzato apposta il caso di quello spettacolo proprio perché è molto celebre, ma in realtà la questione riguarda tanta parte del teatro performativo o del teatro d’immagine del Novecento. Molto spesso, in quel tipo di teatro che ha avuto un ruolo fondamentale nella ridefinizione dei codici scenici moderni, recitare si limitava ad un “essere lì” e fare delle cose per cui non erano richieste delle competenze particolari (ad esempio, c’è una luce per terra e io devo camminare lungo quella luce). Addirittura i grandi artisti dell’Happening degli anni ’50 sostenevano che proprio perché durante le loro azioni sceniche bisognava eseguire dei compiti e basta, senza implicazioni di tipo interpretativo, non li potevano fare degli attori, ma dovevano esserci dei non-attori. Diceva Michael Kirby, che è stato il grande storico e teorico dell’Happening, che un’azione che preveda di spazzare il pavimento può risultare profondamente diversa se ad eseguirla è un attore o diversamente un non attore. Nel primo caso ci sarà, quasi inevitabilmente, un’intenzione. L’attore, proprio perché così è connaturato alla sua arte, cercherà istintivamente di dare una caratterizzazione o un’espressività a quel semplice gesto, il quale, viceversa, nelle mani di un non attore risulterà esattamente quello che materialmente è, senza implicazioni seconde.

Questo aspetto della recitazione, che prescinde dalla tecnica e che troviamo in una qualche misura presente anche negli attori del Living, esclude la dimensione della qualità? Beh, sul piano che abbiamo definito intellettuale no, perché quel “far niente” determina uno scarto nel linguaggio e questo scarto ha un suo valore. Però questa azione scenica ha anche un impatto emotivo sullo spettatore. E allora c’è una qualità nella prima scena dell’Antigone anche su questo livello (per non parlare poi del valore storico dello spettacolo), ed è anche forte ma, se vogliamo provare ad identificarla, le categorie abituali non funzionano. Dobbiamo cercarne di altre.

Per capire gli attori del Living e per rendere ragione criticamente della loro efficacia dobbiamo affidarci a una natura della recitazione che ne precede la dimensione più strettamente operativa, interpretativa e tecnica. Una natura profonda che è di sempre e da sempre del teatro, ma che col Novecento è come se uscisse fuori, si esprimesse in tutta la sua potenza. Cos’è? L’esserci, l’essere presente. Cosa significa esserci, essere presente? Stanislavskij, dopo aver scritto centinaia di pagine sulle tecniche per arrivare ad assumere una perfetta padronanza scenica, dice: poi ci sono quelli che entrano in scena e riempiono il palcoscenico da soli. Quasi una dote fisiologica, che prescinde dall’apprendimento, dalla capacità acquisita col lavoro e lo studio. Una simile affermazione ci conduce nel territorio sdrucciolo dell’ineffabile. Dell’esserci, della pura presenza dell’attore come possiamo parlare? Rischiamo di limitarci a considerazioni impressionistiche: ce chi ce l’ha e chi no, e questo non funziona, non va bene dal punto di vista della metodologia di studio. E poi verrebbe anche da chiedersi a proposito degli attori del Living: possibile che tutti fossero dotati di questa capacità intrinseca, innata e indefinibile? Ovviamente, posto così, il discorso non sta in piedi. Dobbiamo affrontarlo da un’altra angolazione. Forse il problema è un problema di linguaggio. In un teatro di tipo performativo l’elemento che veicola la qualità è diverso: non è il saper fare, ma il saper esserci. Una cosa che potremmo ricondurre a un termine che è un po’ improprio ma che ci lascia comprendere ciò di cui stiamo parlando. Questo termine è concentrazione. Voi capite che se io devo stare lì a guardare lo spettatore con uno sguardo di sfida, immobile, devo essere assolutamente convinto di quello che sto facendo e che quindi, quella convinzione, quella capacità di essere presente diventa una forma di qualità e paradossalmente anche una tecnica. Una tecnica che non richiede delle abilità, ma che pone una questione di presenza come valore espressivo. Quanto comunica e colpisce emotivamente lo spettatore, è la capacità di gestire scenicamente il proprio essere persona, il proprio vissuto nel presente della scena. Io ci sono, ci urlano gli attori del Living e sembrano aggiungere: tu ci sei? rivolti allo spettatore. Il gioco scenico di questa presenza e su questa presenza rappresenta una parte consistente della qualità formale, chiamiamola pure così, del teatro performativo.

E’ su questo concetto che voglio concludere il mio discorso. Mi sembra che gli argomenti che ho provato ad affrontare ci pongano il problema della qualità come interrogazione, come una questione aperta che ci obbliga a resettare le nostre categorie interpretative, perché di fronte ad un’opera che mi colpisce dal punto di vista della presenza, di quello che mi accade visivamente di fronte, sono in qualche maniera stimolato a chiedermi se la qualità sia qualcosa che si produca solo come un riflesso nella mia ricezione o viceversa riguardi, e in che misura, quello che vedo. In realtà quanto ci rivela questa particolare tipo di esperienza teatrale è che quando parliamo di qualità non solo il discorso è complesso – come ci dimostrano i tre livelli attraverso i quali si manifesta – ma è anche dialettico, nel senso che la qualità, in quanto fattore culturale, riguarda l’opera, ma anche chi, fruendola, la pone in rapporto ad un suo modello estetico. Nel caso di fenomeni in cui il valore dello scarto pesa maggiormente rispetto a quello della confezione o, diciamo anche meglio, in quei casi in cui il valore dello scarto si traduce in una forma di confezione diversa, anche profondamente, rispetto ai modelli storicizzati, la questione della dialettica culturale tra opera e fruitore, nel definire la dimensione della qualità, è enfatizzata. L’opera novecentesca, come brillantemente teorizzato da Umberto Eco negli anni sessanta, è un’opera aperta in cui il processo pesa quanto, se non di più del prodotto, in cui la qualità è legata ad un gesto, ad un atto culturale prima ed oltre che alla realizzazione di una “cosa d’arte”.