L’attore torpedine. Dialogo con Socrate e Flavio Albanese albanese

L’attore torpedine. Dialogo con Socrate e Flavio Albanesedi Enrico Piergiacomi

Ho avuto l’enorme privilegio, sia intellettuale che umano, di conoscere Flavio Albanese de La Compagnia del Sole e il suo lavoro di anni sul Menone di Platone in tre dense giornate trentine, nello spazio accogliente e favorevole alla concentrazione del teatro Portland.

L’artista ha avuto prima modo di rappresentare l’8 gennaio il suo spettacolo I numeri dell’anima, adattamento del sunnominato dialogo platonico e recensito con finezza dal mio amico/collega Sergio Lo Gatto (http://www.teatroecritica.net/2015/12/i-numeri-dellanima-le-virtu-della-compagnia-del-sole/), e poi di tenere, nei due giorni successivi, un laboratorio teatrale sul medesimo testo (http://www.teatroportland.it/eventi/labellastagione/201516_ws_2.html). L’incontro con Albanese ha dato l’occasione di riflettere da vicino sui contenuti profondi del Menone e sulla sua potenziale attualità, che emerge quando un artista rispettoso ma esigente lo interroga e cerca di farlo parlare. Sono soprattutto due le questioni che mi sembrano degne di essere affrontate. In primo luogo, che necessità c’è di rappresentare, oggi, un dialogo di Platone? La risposta sembrerebbe essere che non ve ne è nessuna. Albanese ha semplicemente scelto di lavorare su un testo che gli piaceva e, avvalendosi della sua sensibilità unita a una solida esperienza della scena, ne ha tratto una costruzione drammaturgica che “funziona” e sollecita domande sul presente. In secondo luogo, cosa hanno da spartire il Socrate platonico e il teatro, da legittimare un loro accostamento? In apparenza, nulla. Sembra, infatti, che non vi sia divario più profondo tra il Socrate platonico, che si arrovella sulle grandi questioni senza venirne spesso a capo con un interlocutore alla volta, e la viva immediatezza del teatro, che peraltro ambisce a coinvolgere nella sua finzione estetica molte persone nello stesso tempo. Ma si tratta di due risposte superficiali, perché la vicinanza tra i due e l’attualità del Menone sono più chiare di quanto sembri. Un elemento attuale del dialogo è la sua capacità di offrire strumenti per incrinare il buon corso della “società dello spettacolo”. In modo molto sintetico e parziale, potremmo definirla come il sistema culturale-mediatico che il potere costituito usa per ottenere consenso dai membri della società, ri-correndo a forme di comunicazione manipolatrice che fanno leva esclusivamente sulla componente emotivo-irrazionale della persona. La società dello spettacolo si avvale, insomma, di un dire asserti-vo, che non cerca di farsi capire, mirando invece a confondere, a suggestionare e a indurre ad approvare le decisioni dei potenti, a prescindere dalla loro verità e fondatezza. Ora, questa forma comunicativa e manipolativa non è molto distante dalla retorica di cui Menone è almeno dapprincipio cultore, che consiste nel persuadere l’ascoltatore ad acconsentire acriticamente che un oggetto (di cui non è stata preventivamente espressa l’essenza) ha certe qualità, a cui Socrate oppone la dialettica, cioè il metodo che indaga l’essenza di un oggetto insieme a un interlocutore attivo e pensante, provando a definirlo entro termini noti e non controversi (ex., la figura è «il limite del solido», che è una definizione in cui tutti sanno cosa significhi “limite” e “solido”). Tale opposizione emerge molto bene dallo spettacolo stesso di Albanese. Entro la sua cornice, Menone tende a recitare delle lunghe tirate esibizionistiche che non dicono niente della virtù e si auto-legittimano per un sapere ricevuto da un maestro (Gorgia di Leontini), mentre Socrate tenta di indurlo a rendere conto di quanto dice e a riflettervi su, rilevandone tutta la sua inconsistenza. Così facendo, egli però fornisce un antidoto contro l’accettazione acritica di quanto proviene dall’autorità esterna e dalle suggestioni del discorso mal fondato, ossia appunto contro uno dei metodi portanti della società dello spettacolo. Uno spettatore che ascolta le parole del Menone non potrà che accorgersi dei quotidiani processi di manipolazione che il potere esercita su di lui e cominciare a sottrarglisi. Quanto all’accostamento tra Socrate e il teatro, si può anzitutto notare un fatto basilare. Socrate è un filosofo che recita, a tratti pure molto bene, come quando declama a memoria il discorso di Gorgia sugli effluvi di Empedocle e sulla loro capacità di far percepire i colori, oppure narra l’esistenza di «uomini e donne divini» che rivelano che conoscere non è altro che ricordare una verità appresa in una vita precedente. E la rappresentazione di Albanese lo fa emergere, ancora una volta, con nettezza, mostrando un Socrate che pronuncia ogni suo discorso con scioltezza, leggerezza, ritmo. Ma una seconda e ben più profonda ragione dell’accostamento è la qualità “teatrica” degli effetti che il procedere socratico ha sui suoi interlocutori. In un punto di transizione strategica del dialogo, Menone paragona Socrate a una torpedine, che intorpidisce colui con cui entra in contatto, instilla in lui dei dubbi e lo costringe a fare silenzio, non più a dire rumorosamente molte insensate cose sull’oggetto che sta elogiando. E Socrate replica che il confronto sarebbe giusto solo ammettendo che lo stesso torpore si trovi anche in lui. Funzionerebbe, insomma, a patto di concedere che lui è una torpedine che genera torpore perché a sua volta intorpidita, dubbi in quanto tormentato dal dubbio, silenzio poiché costretto anche lui al silenzio. Queste qualità sono condivise dall’attore che cerca il teatro, Albanese compreso, ossia quegli attimi di forza pura che spuntano con timidezza per poi ricalarsi a capo chino tra le ombre, ma provocano da lì in avanti degli effetti devastanti su attori e spettatori. Il filosofo Socrate e l’artista performativo hanno perciò in comune il potere di provocare inquietudini e incertezze, così come il fatto di spasimare di conoscere qualcosa che non si conosce e, per estensione, di vivere una vita intensa che ancora non si vive. Se accettiamo che “spettacolo” e “teatro” sono due cose diverse, benché tra loro intrecciate, potremmo dire che il Menone rappresentato da Albanese raffigura la sfida tra due tipologie di attori: quello “spettacolare” e quello appunto “teatrico”. L’uno è colui che – come il retore Menone – procede sicuro in una declamazione suadente, ma non arriva a nulla di solido e importante. L’altro – come il filosofo Socrate – è l’attore che sperimenta e fallisce, scova un barlume di vero e lo perde, mentre nel frattempo contagia gli altri con l’amore per la ricerca in comune e per la libertà dalle soverchie del potere costituito. Potremmo qui paragonare la scarica elettrica dell’attore-torpedine al teatro-peste che Artaud delinea ne Il teatro e il suo doppio, se non fosse per un’importante differenza. La poetica artaudiana ambisce alla vitalità pura, che però rischia di sfociare nel caos, come negli atti gratuiti e inutili di un folle. Diversamente, la scarica della torpedine è un preludio a un procedere metodico più meditato, dunque produce un silenzio a cui dovrà però fare seguito una voce inter-rogante e ordinata. Non a caso, il dialogo arriverà, dopo il paragone con la torpedine, all’assunzione del metodo ipotetico, che formula un’ipotesi di partenza e cerca di validarla con una catena di altre ipotesi, meno controverse e di cui si può provare a verificare la fondatezza epistemica. In sostanza, l’attualità del Socrate del Menone e la sua forte vicinanza col teatro sta nella sua virtù di sconvolgere l’ascoltatore, sensibilizzandolo all’apprezzamento della vita di ricerca in comune e anche a resistere alla brutalità del potere. Uno dei tanti pensieri che hanno costellato il laboratorio con Albanese è l’idea che Socrate costituisce uno dei tanti esempi di esseri umani che furono portatori di luce, la quale nasce quando un corso di energia che procede fluido subisce un arresto, o una brusca interruzione. Il Socrate-torpedine è dunque “elettrico” perché resiste e, con ciò, emana una radiazione luminosa e dissipatrice dell’ignoranza, che molti hanno cercato tante volte di spegnere con la cicuta, la crocefissione, il manicomio o altri strumenti coercitivi, pur di non liberarsi dal fango e dal buio dell’esistenza, in cui sguazzano soddisfatti perché vi trovano un po’ di piatta e narcotica sicurezza.