Il profumo troppo intenso delle orchidee

Il profumo troppo intenso delle orchideedi Monica Anesi

Bolzano, Teatro Stabile, 19-22 marzo 2015

A teatro non si va per capire ma per colpire. In questa frase può essere sintetizzato lo spettacolo Orchidee, ideato e diretto da Pippo Delbono, in scena allo Stabile di Bolzano dal 19 al 22 marzo 2015. È ormai noto come questo regista non rappresenti allestimenti di testi teatrali, poiché le sue sono creazioni totali, dove gli attori, in parte professionisti e in parte provenienti da realtà particolari, costituiscono un nucleo che si mantiene, e nel tempo si modifica.

In questo spettacolo, il cui titolo allude al sottile confine tra vero e falso (e l’orchidea è un fiore che si presta a questo gioco), l’ossatura è costituita da due elementi: la voce quasi sempre presente di Delbono e la narrazione di alcuni episodi della vita di sua madre, in particolare della sua morte. Per il resto la rappresentazione è un susseguirsi di flash più o meno lunghi in cui si parla di temi disparati: la vita, la morte, l’amore, l’omosessualità, la verità, la finzione, la difficoltà del vivere quotidiano, la rivoluzione, il disagio. Per fare questo il regista adotta tecniche diverse: spesso si fa aiutare da filmati a tutto schermo, di breve durata, che cambiano repentinamente a seconda dell’argomento, mentre gli attori stanno in scena immobili, seduti o in piedi senza dire niente. Se si sente una voce è quella fuoricampo di Delbono che commenta e argomenta, a tratti, come un cantastorie. Ad esempio per parlare della violenza e della morte viene trasmesso un filmato con una serie di aggressive scimmie imbalsamate, poi una serie di manichini, con i loro sguardi fissi e assenti. L’immagine si sposta quindi su uno di questi, che mostra gli organi interni del corpo umano. E mentre nella sala una canzone rock dei Deep Purple è sparata a tutto volume, il regista al microfono con voce profonda dice alcune frasi come: “Mi manca mia mamma, avrei voglia di verità e di vita…; in questo mondo non riconosco più la bellezza è nascosta agli occhi…, i vivi sono morti….”. Vi sono alcuni momenti, soprattutto, nella seconda parte, dove gli attori parlano al pubblico. Una di loro, ad esempio, esordisce dicendo che siccome il regista afferma che la realtà supera la finzione, in teatro è meglio rappresentare la realtà, per cui ha deciso di mettere in vendita i quadri che sua nonna aveva nella casa di Cremona; tutte copie di Manet e Monet, portate da lei sul palco, una alla volta e presentate con titolo, data e luogo dove si trova l’originale. Mentre i quadri sono mostrati al pubblico sul fondo, due attori, un uomo e una donna, si spogliano, e nudi si siedono davanti a questi quadri recitando in playback in francese. Le suggestioni che Delbono trasmette attraverso frasi, filmati, recite, balletti che paiono improvvisati sono molto forti, poiché é questo che il regista vuole comunicare: emozioni intense e vere, ossia scaturite dalla “realtà” e non dalla finzione. Tuttavia, se le emozioni nascono da scene affastellate l'una all'altra, senza alcun filo logico, senza una  pur minima spiegazione rimangono fine a se stesse, come fuochi di artificio che si accendono e poi muoiono. Molte frasi e citazioni famose si susseguono nello spettacolo, ma sono troppe e alla fine lo spettatore ne ricava un senso di saturazione. Delbono rifugge dalle rappresentazioni tradizionali, ribadisce più volte che il suo non é un teatro tradizionale, ma in questo spettacolo si sprecano le citazioni da testi classici. Emblematico l’esempio di lui che declama per intero uno dei pezzi più celebri di Romeo e Giulietta “Ma chi sei tu che avanzando nel buio della notte…..” e tutto il monologo di Amleto “Essere o non essere” di Shakespeare, con un tono di voce, sempre fuoricampo, che via via cresce fino ad urlare tanto da rendere quasi incomprensibili le parole. Nel frattempo i suoi attori si muovono più o meno confusamente sul palco, certo nell'intento di dare più forza alle parole. Ma cosa aggiunge ai versi shakesperiani l’immagine di uomini e donne, nudi e vestiti, che girano in cerchio vorticosamente? La domanda vale anche per la parte finale dello spettacolo, dove si vedono le riprese fatte dal regista con il cellulare all'anziana madre morente, con le ultime parole che pronuncia rivolta al figlio. Nelle immagini successive l'obiettivo si ferma sulle braccia magrissime, sulle mani e sulle unghie ormai annerite dalla morte che sopraggiunge. Forse Delbono non ha ancora superato il lutto della scomparsa della madre, una figura molto importante per lui, anche alla luce della sua omosessualità. Egli ha dichiarato che in questa scena non vuole rappresentare “sua” madre, ma “la madre” come archetipo e attraverso lei parlare della morte. Tuttavia c'è da chiedersi che bisogno c'era di portare in teatro un dolore così intimo e personale, e che tale rimane, perché per tutto lo spettacolo la voce del regista ha narrato episodi legati a sua madre e al ricordo nostalgico e affettuoso che lui ha di lei. Pertanto quando appare allo schermo la donna anziana morente che al regista dice di non avere paura, si percepisce nettamente e unicamente sua madre. Così lo spettatore, coinvolto suo malgrado da questa scena fortissima, ha come unica alternativa quella di andarsene, o rimanere inchiodato alla poltrona a guardare immagini talmente intime da risultare quasi oltraggiose. Delbono sicuramente voleva indurre a una riflessione sulla morte, ma è davvero riuscito nel suo intento? Ed è uno spettacolo artisticamente riuscito?