Il giardino dei Ciliegi: la nostalgia del passato, il riscatto del presente

Il giardino dei Ciliegi: la nostalgia del passato, il riscatto del presentedi Monica Anesi

Bolzano, Teatro Verdi, 11-14 dicembre 2014

La Compagnia dello Stabile di Napoli, con la regia di Luca De Fusco, ha rappresentato presso il teatro Verdi di Bolzano Il Giardino dei ciliegi di Anton Čecov dall’11 al 14 dicembre 2014. Il regista ha voluto creare un’ambientazione napoletana per raccontare l'epilogo di una famiglia aristocratica di fine Ottocento, che si rifugia ostinatamente nel passato e non accetta l’ineluttabile cambiamento dei tempi. Il giardino dei ciliegi, l’unica proprietà ancora rimasta e ora ipotecata per i debiti, rappresenta proprio i giorni felici della gioventù, i ricordi di un mondo quasi scomparso. Ormai questa famiglia, costretta a far fronte alle nuove esigenze economiche, non può più vivere alle spalle della servitù, già emancipata. Per pagare i debiti sarebbe necessario mettere in vendita il grande giardino, ma sia Ljuba (Gaia Aprea) sia il fratello Gaev (Paolo Serra) – proprietari della tenuta – rifiutano questa ipotesi per loro volgare, folle e si ostinano a far finta di niente, aspettando la soluzione che forse potrebbe piovere dal cielo. Così il tempo scorre senza che nulla accada, tra discorsi apparentemente futili, superficiali, che però mascherano la dolorosa consapevolezza della fine di un’epoca, quella aristocratica, e l’incapacità di prendere in mano le proprie vite.

La scena iniziale è già simbolicamente foriera dei contenuti del dramma. È notte fonda, Lopachin (Claudio Di Palma), mercante e amico di famiglia, la cameriera Dunjaša (Serena Marziale) ed il contabile Epichodov (Gabriele Saurio) si ridestano, sono nella bianca stanza dei bambini (qui si svolgono il primo e l’ultimo atto), stanno aspettando con le candele accese l’arrivo dei padroni di casa: Gaev, Ljuba, sua figlia Anja (Alessandra Pacifico Griffini) e altri membri della servitù. La figlia adottiva di Ljuba, Varja (Federica Sandrini), che sovrintende alla casa è andata a prendere tutti alla stazione. Tuttavia non si sentono carrozze arrivare, tutti i personaggi appaiono contemporaneamente in scena: alle spalle di Lopachin, Dunjaša ed Epichodov su una scala bianca con una balaustra in parte rotta, sono in fila tutti gli altri, vestiti con abiti chiari, eleganti, ma avvolti da una luce grigia che li fa sembrare crisalidi, chiuse e vagamente lontane. Anche quando entrano in scena pare che ognuno parli per sé e che nessuno ascolti ciò che dice l’altro, ciascuno occupato nei propri inutili pensieri. Lo spettatore si chiede subito cosa stia accadendo, e questa domanda rimane per tutto il dramma, poiché ciò che accade non è mai evidente, ma si nasconde dietro le pieghe di drammi individuali. De Fusco sa orchestrare bene la leggerezza e la futilità di dialoghi e situazioni: tutti i personaggi fingono di essere felici, ridono scherzano, giocano, fanno discorsi apparentemente inutili, ma che in alcuni momenti si aprono in squarci di dolorosa verità. Così ad esempio Gaev, il fratello di Ljuba, un dandy che si è mangiato il patrimonio in caramelle; questi continua a parlare del passato, della nostalgia dei bei tempi, arriva addirittura a pronunciare un elogio al vecchio armadio della stanza dei bambini, maschera la tensione fingendo di giocare e biliardo. Sembra uno sciocco, però ad un certo punto e per breve tempo getta la maschera e piange, e dietro quel pianto si legge come la sua apparente leggerezza nasconda l’incapacità effettiva di prendere in mano la situazione, di far fronte ai debiti, legato com’è ad una cultura aristocratica che considerava la gestione economica, volgare, becera, da affidare comunque ad altri. Non molto diverso è per Ljuba, la protagonista; anche lei ritiene la vendita del giardino una sciocchezza e davanti a questa prospettiva continua a cambiare discorso, a parlare d’altro, a rimandare decisioni importanti. Tuttavia, dal secondo atto la sua superficialità a tratti vacilla e si scopre così il suo vero animo. Ad uno stupito Lopachin confesserà i suoi “peccati”: l’essere un’inguaribile e scriteriata spendacciona, l’aver sposato un uomo, morto poi alcolizzato, che in vita si era indebitato fino al collo, il castigo della morte del suo bambino annegato nel fiume che scorre accanto al giardino dei ciliegi. Poi la fuga, per il troppo dolore, in Francia, dov’era diventata l’amante di un buono a nulla, un imbroglione, traditore, pure lui indebitato, il quale, dopo averle quasi prosciugato il patrimonio, l’aveva abbandonata e ora, malato, supplicava il suo ritorno. Ljuba si rivela così una donna catturata dal suo stesso destino e totalmente incapace di cambiarlo. Nel terzo atto, parlando del suo amante, urlerà quasi a Lopachin: «È questa la pietra che ho al collo e che mi porta sul fondo, ma io amo questa pietra e non riesco a vivere senza di lei». Gli unici personaggi che hanno la consapevolezza dell’imminente rovina sono la figlia adottiva di Ljuba Varja (Federica Sandrini) e il mercante Lopachin. La prima è molto preoccupata nel vedere la madre e lo zio fantasticare, vagheggiare, senza prendere alcuna decisione, e più volte sottolinea la gravità della situazione, ma invano. Neppure la proposta del mercante Lopachin è presa in considerazione. Questi, figlio di un servo della gleba che apparteneva alla famiglia, non è un uomo colto, ma ha senso pratico, si è arricchito con il commercio e rappresenta la nuova borghesia emergente. È lui che insiste affinché la tenuta sia lottizzata e venduta, per non essere messa all’asta, ma lo fa anche per il sincero affetto che lo lega a Ljuba, poiché vorrebbe evitare la rovina per lei e per la sua famiglia. Ma per Ljuba e il fratello Gaev il valore simbolico del giardino è tale da renderlo indivisibile e inalienabile. Nonostante i modi gentili e affabili, l’incomunicabilità tra loro e Lopachin è evidente, e diventa la metafora di una barriera tra due mondi diversi, distanti, inconciliabili. Vi è poi il giovane e colto Trofimov, il precettore di famiglia, che mai ha lasciato la sua terra, e con lucida consapevolezza ne stigmatizza ad Anja, di cui è innamorato, le profonde contraddizioni. Una terra dove l’aristocrazia si comporta come se fosse ancora proprietaria di terre e di anime, quelle dei servitori, tuttavia emancipati, vivendo alle spalle di quelle persone che non venivano ammesse «più in là della stanza d’ingresso». Un’aristocrazia piena di debiti debito ed irrimediabilmente arretrata, che perdeva il rapporto sia con il passato sia con il presente, ora riscattabile solo a prezzo di sofferenza e fatica. Nei primi due atti la recitazione trasmette una sorta di distaccata freddezza, poco consona, a mio avviso, ad una famiglia napoletana, per quanto nobile. Ma le cose cambiano nel terzo atto, dove il destino del giardino dei ciliegi troverà una svolta. Qui la recitazione si fa più urgente, appassionata, a tratti disperata. La scena si apre con la festa da ballo, dove si finge spensieratezza, allegria che però cela la tensione dell’attesa per sapere se la tenuta è stata venduta o no all’asta. I personaggi ballano tutti in modo uguale, sincronico, sembrano burattini che in una grigia luce recitano un vecchio copione. Di nuovo luce: arrivano Gaev e Lopachin di ritorno dalla città dove si è svolta l’asta. Si scopre così che il giardino è stato venduto e l’acquirente è proprio Lopachin. Questi in una confessione appassionata, tra il riso ed il pianto, tra dispiacere, soddisfazione, incredulità e stupore, rivendica la sua conquista: l’essere divenuto il proprietario di quella terra dove suo padre e suo nonno, neppure ammessi alle cucine, avevano lavorato come schiavi per tutta la vita: un riscatto sociale inaudito e inimmaginabile fino a pochi anni prima. Gaev, Ljuba e le figlie di lei, sono attoniti, increduli, devono accettare, poiché i giochi sono fatti, il giardino è venduto, un’epoca è ormai tramontata. Tra il passato e il presente vi è oramai un muro i cui pezzi sono montati dagli stessi personaggi in scena all’inizio del quarto ed ultimo atto. Attraverso il muro una larga fessura dalla quale si vedono gli attori nella stanza dei bambini: sono pronti per partire, e lasciare definitivamente la casa. Un ultimo saluto, un ultimo sguardo al giardino lo daranno Ljuba e Gaev, ma per farlo dovranno scavalcare il muro, guardarlo di lontano e per breve tempo. Ormai quello spazio appartiene solo ai ricordi.