La Tempesta della Popular Shakespeare Kompany

La Tempesta della Popular Shakespeare Kompanydi Valeria Tirabasso

Un lavoro teatrale interessante e ricco di suggestioni, questa Tempesta portata in scena dalla Popular Shakespeare Kompany di Valerio Binasco, che recupera tutta la magia dell’ultimo romance del drammaturgo inglese. Il testo viene rispettato quasi alla lettera, nonostante la soppressione di alcune scene (il masque, la partita a scacchi), la rielaborazione di altre e l’aggiunta di alcune brevi, ma efficaci battute, necessarie alla comprensione dell’interpretazione che il regista vuole dare di alcuni personaggi. Nonostante il testo venga proposto in modo così riconoscibile, infatti, si intuisce che il regista ha voluto offrire la propria linea interpretativa, che si ravvisa soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi, così simili e insieme così diversi, non tanto rispetto a quelli shakespeariani (chi può dire come l’autore li aveva plasmati per la scena?) quanto rispetto alla tradizione scenica e iconografica del testo.

E così, ad esempio, di Prospero (interpretato dallo stesso Binasco) vengono sottolineati la rabbia e il rancore per i torti subiti, che si esprimono in una cattiveria quasi esagerata nei confronti di tutti, persino di Miranda (Deniz Ozdogan) e Ariel (Fabio Contri). Ma è proprio questa sua rabbia incontenibile che, per contrasto, aumenta il pathos nelle scene del perdono e della rinuncia alla magia. È qui che si comprende la natura del mago: un uomo sofferente che è costretto a fare del male non solo per sete di vendetta, quanto per il più nobile amore di padre. A questo proposito, particolarmente efficace risulta la famosa battuta «every third thought shall be my grave», completata in questa versione con un accenno agli altri due pensieri, che, Prospero dice, saranno entrambi dedicati alla giovane Miranda. Qui, come altrove, si ravvisa una spiccata capacità del regista nel riempire di senso le fratture del testo, ovvero quei momenti in cui il non detto può offrire nuovi spunti di riflessione e di interpretazione dell’opera. Un’operazione simile viene compiuta nella lunga scena del tentato regicidio ai danni di Alonso, quando, nel momento clou dell’azione, inspiegabilmente, Sebastiano interrompe Antonio con una strana battuta («O, but one word») che, appunto, spezza il corso degli eventi, permettendo ad Ariel di svegliare Gonzalo e conseguentemente far fallire l’assassinio. Qui, per sottolineare l’irrazionalità di questa battuta e contemporaneamente mettere in risalto la meschinità dei due, Sebastiano compie l’assurdo gesto di celebrare il momento con un autoscatto fatto con il cellulare. Ecco che quindi un’evidente sospensione di senso, presente nel testo originale, viene sfruttata, non tanto per rendere banalmente attuale la messa in scena, quanto per veicolare una precisa interpretazione della natura di Antonio e Sebastiano, che diventa immediatamente comprensibile per il pubblico contemporaneo. Ariel è protagonista di una lunga serie di queste ‘saturazioni di senso’, ma il tratto più interessante dello spiritello è il fatto che il regista ne faccia un personaggio completamente nuovo, che nulla ha a che vedere con la tradizione scenico-iconografica che da sempre lo vuole giovane, volante, delicato, etereo e dalla vivace gestualità. L’Ariel che vediamo sul palco è invece anziano, fragile, si muove a fatica, porta ancora nel corpo, ma ancor di più nella mente, le ferite accumulate nei venti anni di prigionia (più dei dodici che Shakespeare aveva immaginato) trascorsi nel tronco cavo di un pino. Ancora adesso, a vent’anni di distanza, complice la schiavitù inflittagli da Prospero, Ariel è incapace di ascoltare il nome di Sycorax senza tremare di un impotente terrore. Il risultato, però, non è quello di un personaggio debole e inetto, come fin dal principio sembra suggerire la maglietta con il marchio di Superman sfoggiata sotto il lungo cappotto aperto: nonostante le sue paure, la balbuzie e il passo incerto, Ariel resta il vero motore dell’azione del dramma. Un suo gesto da mimo è tanto potente da permettergli di evocare un banchetto invisibile agli occhi stupefatti della corte, o addirittura di interrompere l’azione nel bel mezzo di una scena concitata come quella della pianificazione dell’assassinio di Prospero ad opera di Calibano e Stefano, solo per invitare gli spettatori, senza il bisogno di pronunciare una sola parola, a godersi la pausa tra i due atti. Esprimendo una capacità istrionica davvero notevole, Fabio Contri riesce nell’impresa di dare voce e corpo a un Ariel così diverso, e tuttavia così simile a quello shakespeariano.
È evidente che dietro ogni personaggio c’è un preciso disegno interpretativo, che sarebbe qui impossibile analizzare nel dettaglio. Ma vale la pena soffermarsi almeno sulla giovane e capace Deniz Ozdogan, che veste i panni di una Miranda adolescente e arrabbiata, succube e ribelle allo stesso tempo verso il potere del padre. Grazie a una gestualità che la rende a volte incapace di controllare i propri movimenti, alla mimica e a una recitazione potente, quasi esplosiva, che solo la magia di Prospero può domare, Miranda viene qui rappresentata come una ragazza moderna, sofferente e forte, timida e desiderosa di scoprire il suo passato e di costruire il suo futuro. Un personaggio contraddittorio ma, anche in questo caso, fedele al testo originale.
Notevoli anche le interpretazioni di Gianmaria Martini, un Calibano che risalta per la sua acuta sensibilità poetica, contrastata dall’esilarante duo comico Ivan Zerbinati e Sergio Romano (Stefano e Trinculo). La messa in scena rende perfettamente giustizia a questo contrasto, tra un mostro deforme nel corpo ma capace di grande spessore poetico, e due uomini incapaci di comprendere la bellezza dell’isola e della magia, concentrati unicamente sul gioco di parole, sulla risata e sull’ebbrezza del vino. Anche i loro ruoli, si intuisce chiaramente, sono il risultato di un dialogo tra testo e regia, di una consapevole rivisitazione della resa scenica dei singoli personaggi, con l’intento di avvicinarsi il più possibile al testo, senza stravolgerlo. Basti pensare alla battuta brillante che trasforma lo stupore di Trinculo nel rivedere finalmente la corte al termine del dramma (nel testo originale «If these be true spies which I wear in my head, here’s a goodly sight») in un potente e suggestivo «Sono apparso alla Madonna!». Un altro segno di come la Popular Shakespeare Kompany, rimaneggiando e inventando la sua propria Tempesta, ottiene il duplice obiettivo di restare fedele a Shakespeare e al contempo comunicare quegli stessi significati in modo immediato e perfettamente riconoscibile a un pubblico contemporaneo.