In cerca di Riccardo III

di Mark Di Grazia

Con Richard III Shakespeare affrontò il tema della ricerca del potere. Questo dramma (a differenza, ad esempio, di Macbeth) ha il pregio di presentare il protagonista non in quanto spinto da un’ingannevole profezia, bensì in quanto compiutamente faber suae fortunae.

Insomma, siamo di fronte all’uomo in preda alla più folle bramosia di potere, per soddisfare la quale è disposto a sbarazzarsi d’ogni ostacolo umano che gli si presenti innanzi. La straordinaria astuzia del protagonista, il duca di Gloucester, gli permette di manovrare alla perfezione l’ingranaggio dei rapporti di corte, stringendo alleanze e sciogliendole, presentandosi nei modi più diversi a seconda delle occorrenze. “Conosciamo le facce, ma i cuori?”, si chiede uno dei personaggi. Anche noi, da spettatori, dobbiamo compiere lo sforzo di svelare le apparenze per capire l’essenza profonda del potere, del modo migliore di governare, dei limiti imposti all’arbitrio individuale e degli altri temi posti in quest’opera.
Chi abbia assistito, l’altra sera al teatro sociale di Trento, alla rappresentazione del Riccardo III, interpretato e diretto da Alessandro Gassman, avrà forse avuto qualche difficoltà nel riscontrare le caratteristiche sopra accennate del dramma. Su uno spazio praticabile più ristretto rispetto alle capacità del palcoscenico, ecco un energumeno, meccanico nei movimenti, bestiale nei grugniti, svettare con prepotenza sopra le altre figure, per lo più ridotte ad un’umanità degradata (denotata anche dal colore spettrale dei volti) e del tutto prive, a quanto pare, della pur minima capacità di giudizio. Ecco dunque non più, come ci aspetteremmo, l’abile, cinico orchestratore nonché espertissimo burattinaio –infatti, se le sue vittime non sono che dei poveri inetti, che bisogno ci sarebbe di tramare?- bensì una belva (poco) umana che dispone di tutto e di tutti a suo piacimento. In questa corte, si direbbe, non esistono figure positive: re Edoardo (Mauro Marino), che dovrebbe rappresentare la tipica figura del re morente (si pensi ad Amfortas nel Parsifal wagneriano), non è altro che un cialtrone gaudente; Richmond (Emanuele Maria Basso) appare, nel migliore dei casi, come un ambiguo parvenu. Così facendo, però, non si capisce, come invece postulerebbe il dramma, perché la ricerca del potere di Riccardo sia da condannare. Al di là di questo, però, rischiano così di diventare del tutto incomprensibili alcune scene importanti: perché gli assassini (soltanto uno in questa rappresentazione, interpretato da Manrico Gammarota) dovrebbero esitare nell’uccidere Clarence? Perché le tre donne dovrebbero piangere i loro morti? 
Passando ora da considerazioni di tipo concettuale al lato pratico della rappresentazione, ciò che salta all’occhio è innanzitutto il fatto che i personaggi intriganti non diano per nulla l’impressione di dover agire –come vorrebbe il buon senso- in segreto, dato che, dalla prima scena all’ultima, si trovano a grande distanza l’uno dall’altro, parlando ad alta voce, senza curarsi minimamente della possibilità d’esser scoperti. Ciò, si dirà, è in parte spiegabile in base alle convenzioni teatrali, necessariamente lontane dal buon senso della vita reale. E sia. In ogni caso, però, il buon senso non è tra gli elementi caratteristici di questa rappresentazione. Basti pensare che, inspiegabilmente, quasi tutti i personaggi indossano dei vestiti risalenti a quasi tutte le epoche passate. Ad un certo punto, si vedono sullo stesso palco nientemeno che due ufficiali della Wehrmacht, un damerino settecentesco, una dama coll’ermellino, un borghese vittoriano, un mantello del tempo dei Goti, due borse della belle époque. Non contento di ciò, il regista ha pensato bene di dotare, per lo scontro finale, Riccardo d’una spada e Richmond d’una mitragliatrice. Dettagli, si dirà. Ma non è un dettaglio la quasi totale mancanza d’interazione tra i personaggi, che si parlano, troppo spesso, con gli sguardi rivolti alla platea e scandiscono ogni frase con l’intensità di chi è nell’atto della lettura di un elenco telefonico. Riccardo, di contro, è costantemente in preda a subitanei cambiamenti d’umore, senza che vi sia, neppure per un istante, l’impressione di esser di fronte ad un astuto manipolatore delle logiche di corte.
Un’ultima parola sulla resa dell’aspetto d’insieme: la scena è scarna, due pannelli laterali aggiungono poco –se non in occasione dell’apparizione, purtroppo dimidiata, degli spettri- all’effetto complessivo e le musiche non sono che una spudorata mozione degli affetti, in specie nel finale larmoyant.

Ora, anche volendo vedere in tutto ciò una coerente applicazione di un’idea registica forte, un’idea, in definitiva, derivante dalla piena accettazione, da parte del regista, di quella repugnante melassa pop, composta dai prodotti (cinema, televisione, musica leggera ecc.) che l’industria culturale ci ammannisce giornalmente; anche volendo vedere nel vuoto simbolismo (gli abiti di scena di cui si è parlato sopra) il risultato di trent’anni di ciarle sulla condizione postmoderna della nostra società, bisognerà chiedersi se non sia proprio l’idea di fondo ad essere radicalmente sbagliata. In questo caso la rappresentazione non sarebbe altro che la buona e rigorosa applicazione di un’idea sbagliata, figlia di una sostanziale aridità di pensiero che ai giorni nostri è, ovviamente, fatta passare per grande spirito d’innovazione. 
Sommando questi elementi verrebbe da chiedersi dov’è il dramma, se la risposta non fosse evidente: nel testo di Shakespeare. Questa rappresentazione ha avuto, se non altro, il merito di dimostrare che il testo in sé non basta a fare del buon teatro. Ci vuole anche il teatro.