Il contagio creativo di Ei-lands

Il contagio creativo di Ei-landsdi Enrico Piergiacomi

Ei-Lands è un esperimento performativo della drammaturga e regista Nadja Grasselli, a cui ho avuto modo di assistere il 30 gennaio 2014 nella Bookique di Trento e che sarà riproposto in Polonia il 12-13 aprile 2014. Esso fa parte del più ampio progetto internazionale LMN - Liminale Räume, avente base a Lipsia-Berlino e che cerca di capire il concetto di “soglia” proponendo alcune azioni artistiche, che tentano di appurare che cosa potrebbe accadere dentro alcuni spazi liminali - di confine. Ciò ha dato vita precedentemente al lavoro Abissi, che in estrema sintesi indaga il rapporto dell’uomo con i luoghi profondi, bassi e oscuri, come la stiva di una nave e il fondale del mare.

Insieme ai performers Leonard Cortana, Andreas Hannes e Zuzanna Jarmakowska, Grasselli intende stavolta indagare con Ei-Lands due luoghi di confine: quello dell’isola (Land) e quello dell’uovo (Ei). Pur nelle loro evidenti diversità - l’uno è un corpo grande e l’altro un corpo piccolo, l’uno ospita molteplici realtà compiute (alberi, animali, ecc.) e l’altro contiene la materia informe di un vivente in via di sviluppo, e via dicendo -, essi hanno in comune il fatto di offrire una precisa metafora della condizione umana. L’uomo condivide infatti con l’isola e l’uovo almeno tre caratteri: 1) l’essere un sistema chiuso o finito, 2) l’avere una struttura fragile, perché tutti questi corpi possono essere distrutti o almeno invasi sia da un agente esterno che da uno interno, 3) l’ospitare dentro di sé una vita brulicante e frenetica, che nel caso dell’uomo prende il nome di “anima” o di “io”. Alla luce di queste somiglianze, si deduce che, per Grasselli, esplorare quanto avviene entro i confini dell’Ei-Land significa di fatto esplorare che cosa succede dentro l’uomo, quando come la massa informe contenuta dentro l’uovo cerca durante tutta la sua esistenza di definire la (i.e., porre confini alla) sua identità e come un’isola aspira a farsi arcipelago, ossia a entrare in una relazione con gli “altri”, a loro volta simboleggiati da isole dapprincipio autonome.

Quanto sto sostenendo trova riscontro nella concreta pratica scenica dell’esperimento, che a mio avviso può essere idealmente diviso in tre parti. I tre performers umani sono occupati, in quella iniziale, a costruire la propria isola o l’involucro del proprio uovo, seguendo in parte il loro arbitrio e in parte le indicazioni che ricevono dall’esterno dalla Grasselli, che siede alla regia alle spalle del pubblico. Ciascuno di loro disegna con il gesso il suo confine e consolida a poco a poco il suo linguaggio, i suoi costumi, i suoi criteri e più in generale i principi che devono regolare la vita del suo sistema chiuso usando azioni, parole e alcuni oggetti di scena (un walk-man, un paio d’occhiali, ecc.). Avviene così la creazione di tre spazi completamente diversi gli uni dagli altri, nonché ancora separati nello spazio: uno che dà preminenza alla riflessione e cerca di tenere ogni cosa sotto controllo nel minimo dettaglio, uno che dà maggiore importanza alla sensazione e al bisogno di entrare in contatto mistico con dio, uno che sceglie l’azione concreta come canone di misura di ciò che può fare e realizzare. Con la seconda parte dell’esperimento, i performers vengono invece lentamente indotti da Grasselli a relazionarsi tra loro, o trovando una forma d’incontro, o al contrario opponendo resistenza e cercando di mantenere integra la propria autonomia. Questo scopo non viene tuttavia raggiunto se non forzosamente e a spese delle isole che erano state formate con fatica. Le alleanze e gli scontri che si succedono con crescente rapidità portano, infatti, da un lato alla costruzione di un’isola più grande, entro la quale si svolgono azioni sceniche sempre più complesse, ma dall’altro alla dissoluzione di quelle piccole, di cui resta solo una macchia informe di gesso sul pavimento, ad attestarne la precedente esistenza e che sembrano persino sparire dalla memoria. Alla domanda posta dalla regia «la vostra isola esiste dopo di voi?», due dei performers rispondono con un secco «no» o uno sconcertato «non lo so», mentre il terzo replica dicendo di «sì», più però per un atto di fede che per una reale convinzione. La terza parte dell’esperimento prevede poi il tentativo di un ulteriore sconfinamento dall’isola grande e della ricerca di una relazione sia con il pubblico che con Grasselli. L’uno viene a un certo punto coinvolto nel gioco performativo attraverso l’invito a porre domande o questioni ai performers. L’altra è invece portata d’un tratto di peso dentro l’isola da questi ultimi e interrogata sulle ragioni che la spingono a dare ordini da fuori, nonché sulla sua reale identità: tant’è vero che uno dei performers arriva a insinuare il dubbio che possa trattarsi del «super-ego», che tenta di dare un controllo alla disordinata vita psichica che si manifesta sulla scena. A interrompere l’esperimento, che altrimenti si sarebbe potuto protrarre indefinitamente e sarebbe potuto arrivare a coinvolgere le persone situate fuori dalla Bookique, quindi tutto il quartiere, quindi Trento, quindi il mondo (la coscienza di questa graduale e inarrestabile estensione è il motivo che mi ha spinto a scrivere, all’inizio del resoconto, che l’esperimento «può essere idealmente diviso in tre parti»), interviene infine l’azione fisica di una quarta attrice, che con lentezza e quasi con paura irrompe nei già fragili confini dell’isola, disegnando intorno a sé con un gessetto rosso una nuova, piccola sponda.
Tutta questa complessa azione scenica non è solo una godibile performance teatrale. Essendo anche uno studio sull’uomo, infatti, essa costituisce pure una serrata indagine sull’io, che solleva tuttavia più domande che affermazioni sicure. Per esempio, vengono tacitamente sollevate almeno le seguenti questioni. L’io dell’uomo è davvero un sistema chiuso, oppure è aperto e soggetto a contaminazioni? Esso cerca un ordine e una stabilità, oppure si abbandona a un processo che porta inevitabilmente a distruggere quanto costruisce con fatica? Nelle sue relazioni con gli altri, l’io ambisce a un incontro e a uno scambio, oppure vuole allargare i suoi confini, fino ad inglobare quanto è situato fuori di sé? E se è più vera questa seconda ipotesi, ciò che viene annesso continua ad esistere sotto altra forma, oppure sparisce completamente?
Una risposta a queste domande richiederebbe l’adesione a una precisa epistemologia, che non è possibile (né avrebbe senso) sviluppare in questa sede. Rimanendo all’interno dell’esperimento performativo, e cercando di capire un po’ di più perché esso potrebbe svolgersi indefinitamente, è però lecito proporre una suggestione. Forse l’io è un potente virus, che se trova modo per svilupparsi e non incontra interferenze può arrivare a contagiare tutte le cose, o perché entra in un intenso rapporto con loro, oppure perché le ricrea e le ricompone in una forma nuova. Ma come un agente patogeno non può attecchire su ogni ente, bensì solo su quelli che possono reagire ad esso, così l’io non può attecchire ovunque, ma solo in spazi appositamente deputati alla sua crescita e alla sua estensione: questo spazio è il teatro. Fuori da qui, infatti, l’io è serrato entro i limiti del proprio corpo e delle circostanze empiriche, che deve solo banalmente accettare. L’idea potrebbe trovare una nobile conferma in Artaud, che paragonava esplicitamente il teatro alla peste, per la sua capacità di condurre gli uomini a compiere azioni folli e significative, che portano per un attimo fuori di sé l’io dal suo povero e quotidiano controllo.