Pinocchio e la fuga nel teatro

Pinocchio e la fuga nel teatrodi Sandra Pietrini

È un povero, abbattuto Pinocchio, quello che vediamo in scena al Teatro Studio Krypton di Giancarlo Cauteruccio, a Scandicci (Firenze). Testo e regia sono di Virginio Liberti e l’attore in scena, dall’inizio alla fine dello spettacolo, è Tommaso Taddei. Un Pinocchio in chiave contemporanea, invecchiato senza essere davvero cresciuto. Disteso su un vecchio divano, fra quattro asfittiche pareti, chiuso in una giostra ossessiva di pensieri che sciorina con monotona logorrea, imprigionato in un corpo che trasuda miseria e trascuratezza, incapace di agire, rabbiosamente nostalgico della sua esistenza di burattino.

Il linguaggio non è neppure un’ancora di salvezza, ma un tentativo disperato di sfuggire all’angoscia: «il pensiero è un cancro, le parole una chemioterapia». L’incubo claustrofobico è intensificato dalla ripetizione, dal senso di impotenza, dalle invettive come palle lanciate contro un muro di gomma. E’ un universo interiore delirante, di cui mal si intravedono i confini e le cause: i riti familiari? il ruolo aborrito e poi bramato di figlio? Non è forse un caso se, uscito dal circolo vizioso del pensiero di sé e dalla morsa autodistruttiva che lo attanaglia, Pinocchio si mette infine alla ricerca del padre. Lo snodo, che poi divide le due parti dello spettacolo (la prima cupa e la seconda giocosa) è costituito dall’entrata in scena di una serie di figurine che appaiono sullo schermo del fondo: il fantastico bestiario della favola di Collodi, con il grillo parlante, la lumachina, la civetta, il tonno, il gatto e la volpe, il pulcino e altri animali. Ma è uno snodo che si comprende solo a posteriori, perché la prima parte ruota attorno a se stessa in modo paranoico, senza offrire abbastanza indizi della fuga verso la favola che si sta preparando.  Ed è precisamente una fuga dalla metastasi del linguaggio attraverso la rappresentazione e il teatro.
Una volta entrate in scena attraverso la mente di Pinocchio (lo schermo), le figurine del bestiario collodiano – bocche umani parlanti in corpi di animali – finiscono per formare una sorta di cintura di salvezza attorno al protagonista, inducendolo a ricordare, a raccontare, a ripercorrere la sua vita per frammenti di memoria. Insomma, a lanciarsi nel percorso catartico della rappresentazione. Il teatro come unica possibile salvezza e ricostruzione di sé, come via di fuga da un corpo trasformato nelle forme caduche e imperfette degli umani. Le favole e il teatro, del resto, annullano il flusso inevitabile dell’esistenza per trasportarci nel magico mondo della ripetizione: non più ossessiva ma gioiosa, non più condanna ma reinvenzione. Pinocchio ritrova dunque se stesso nel teatro, nella rappresentazione della memoria e nella recita delle molteplici parti che interpreta con magistrale virtuosismo mimico e verbale del finale, dove Tommaso Taddei dà il meglio delle sue capacità attoriali. Entra così in un altro labirinto: non più angosciante, bensì leggero come i sogni e i giochi infantili. Un labirinto in cui tutto è possibile e in cui, come a teatro, si può entrare e uscire continuamente dalla parte. E’ un caos in cui Pinocchio si ritrova e di nuovo si perde, finendo comunque per soccombere stremato al suolo, ma con una sconfitta che ha il sapore della vittoria, di una felice ricongiunzione col burattino della favola, di un riscatto dalla propria dolente umanità attraverso il teatro.