Amleto e l’impossibilità del tragico: una riscrittura scenica in chiave pop

Amleto e l’impossibilità del tragico: una riscrittura scenica in chiave popdi Sandra Pietrini

La messa in scena dell’Hamlet di Dan Jemmet alla Comédie Française ha suscitato un certo scalpore nella stampa parigina. La maggior parte dei critici ha espresso giudizi fortemente negativi, al limite dell’indignazione, per l’ardita operazione di riscrittura scenica del testo, peraltro rispettato alla lettera e proposto nella tradizionale traduzione di Yves Bonnefoy. Provocatorio e dissacrante, lo spettacolo, lo è di certo, se non altro per la scelta di fondo di ambientare la vicenda in un pub degli anni ’70, con Claudio trasformato in un volgare barista arricchito e maneggione, appassionato solo di football e musica dance, e Amleto che scrive il suo monologo su uno specchio accanto a un distributore automatico di profilattici. Eppure, l’ostentata volgarità dei personaggi e delle loro azioni si inserisce in un tessuto scenico composito, che sarebbe ingiusto liquidare come una semplice degradazione parodistica della tragedia shakespeariana.

Lo spettacolo, a mio parere, ha molti pregi. Innanzitutto il regista ha saputo creare un’omogeneità stilistica fra i personaggi, trasponendo in un diverso contesto le loro relazioni reciproche senza alterarne gli equilibri. Ha avuto il coraggio di portare fino in fondo, con coerenza, la sua concezione di fondo, ovvero lo spostamento di livello con cui sceglie di interpretare il testo. Due sono a mio parere i limiti dello spettacolo: una certa ridondanza di segni, con un’insistenza forse eccessiva sulla tipizzazione dei personaggi, e alcuni scarti nella recitazione degli attori, che del resto sono i sociétaires della Comédie Française, abituati a tutt’altro genere di interpretazioni. Amleto, per esempio, pronuncia alcune delle sue frasi sulla vanità del creato guardando il pubblico, con i toni e l’atteggiamento retorico che ci aspetteremmo da un attore tradizionale all’interno di un contesto completamente diverso. Più che creare un effetto spiazzante o una suggestiva ambivalenza, lo scarto apre delle crepe nel tessuto dello spettacolo. La bravura tecnica degli attori è fuori discussione, ma altrettanto evidente è la loro incapacità di entrare totalmente in sintonia con l’interpretazione del regista, rinunciando ai gesti tipici di una certa tradizione espressiva e limitandosi invece a rifonderli all’interno di un’attualizzazione dai toni estremi, fin troppo esplicita e insistita. 
Ma passiamo a una sintetica rassegna dei personaggi. Il tratto essenziale di Amleto è l’aggressività, non priva di qualche significativa sfumatura di fragilità e insicurezza. Impetuoso e passionale, abbraccia più volte Ofelia prima di respingerla con violenza. È raramente tentato da regressioni infantili, come quando si raggomitola nel grembo della madre, con una tenerezza subito negata da un nuovo accesso di furore, che assume lampanti connotazioni edipiche allorché si getta su di lei come per un focoso amplesso. È in fondo un personaggio piuttosto statico, che insieme all’altro polo di riferimento, Orazio, costituisce il pernio attorno al quale ruota la vera follia degli altri. L’evoluzione di Ofelia è invece evidente: da ragazza disinvolta e noncurante che balla alla musica del juke-box, con la sua svogliata accondiscendenza ai consigli del padre, si trasforma in una donna che mostra tutta la sua fragilità e capacità di sofferenza durante il colloquio con Amleto; la sua follia si manterrà poi in precario equilibrio fra un candore adolescenziale e i riferimenti osceni del testo (che il regista rinuncia a tradurre verbalmente ricorrendo invece a pochi gesti significativi). L’untuosa verbosità di Polonio è resa attraverso un’ironia che non deborda inutilmente nel farsesco, e lascia intatta la credibilità del personaggio. Lo stesso si può dire di Claudio, un volgarissimo commerciante, che tira fuori banconote come carta straccia per comprare i cortigiani (tranne Orazio, che significativamente le rifiuta). La sua grossolana volgarità di barista ignorante, interessato solo al bere, al divertimento e al sesso è in qualche modo controbilanciata dai momenti di abbattimento, in cui la sua natura di bruto si esprime con una sorta di candore primordiale, o rassegnazione animale (le braccia cadenti, le pose da scimmione sconfitto dal branco). E persino da gesti di ignara, spontanea tenerezza, come quando copre Ofelia che si denuda nel suo furore e ancor più quando attraversa mesto la scena con il suo cadavere fra le braccia. Più monolitica e superficiale è Gertrude, la cui interpretazione continua a ruotare attorno a un personaggio costruito dall’esterno, e i cui momenti di turbamento o rimorso sembrano (e forse vogliono essere) un’affettazione. 
Sempre in bilico tra farsa e tragedia, lo spettacolo sfiora il grottesco senza tuttavia farne una vera cifra stilistica. La riuscita dell’insieme sta forse proprio nella capacità del regista di mostrarci varie possibilità di interpretazione di una stessa scena, come in un caleidoscopio che ruota a ritmi sostenuti, da discoteca con luci stroboscopiche. Induce gli spettatori a ridere della morte farsesca di Polonio ma poi torna rapidamente al senso di impotente, angosciosa sconfitta dello stesso Amleto, a una tragedia che davvero non riesce a compiersi, neppure nell’ecatombe finale, che assume qualche tratto grand-guignolesco di troppo. Efficace e quasi geniale la chiusura del cerchio dopo il silenzio che segue l’arrivo di Fortebraccio: altro personaggio che sembra uscito da un fumetto country, ma dotato di una presenza scenica che ne riassume la valenza catartica. Solo che si tratta di una falsa ventata di purezza e rinnovamento nel marcio in cui sono immersi gli altri personaggi: dopo un interminabile, efficace silenzio, con un paio di gesti appena accennati invita a bere i superstiti, fra cui il viscido Osric, interpretato come un damerino lezioso e caricaturale. Solo Orazio rifiuta. E così il cerchio si chiude tornando a volgari brindisi da pub, non molto diversi da quelli iniziali. 
Soltanto allora, in questo scarto significativo del finale, le morti diventano tragiche, in quanto inutili, mentre gli eccessi caricaturali dell’eccidio vengono riscattati dal fatto che gli attori si alzano e se ne vanno. Una mancata catarsi, dunque, e un gioco complesso di equilibri, talvolta soffocati da una tendenza alla ridondanza e all’amplificazione, ma percepibili a chi, conoscendo il testo, può individuare le scelte interpretative, gli scarti, le soluzioni originali. Vi sono alcune provocazioni forse inutili, come la scena in cui Claudio minaccia Amleto con una pistola giocattolo e il banalmente burattinesco Rosencrantz-Guildenstern (il secondo interpretato dal cane di pezza che il primo porta in braccio). Ma geniali mi sono sembrati alcuni scarti di piani fra il testo e la riscrittura scenica, come quando Gertrude racconta con toni lirici la morte romantica di Ofelia mentre Claudio ne trasporta il cadavere dopo averlo raccolto dal cesso in cui era raggomitolato. La scoperta del corpo si colora dapprima di toni grotteschi, allorché il pezzo del wc che contiene l’acqua dello scarico cade pesantemente a terra, come a ricordarci la volgarità della morte, di tutte le morti, ma poi la scena assume una sua peculiare tragicità, che la sfasatura rispetto al testo declamato da Gertrude rafforza ed evidenzia. 
L’aspetto più originale di questa riscrittura scenica di Dan Jemmet è forse proprio la reinterpretazione in chiave contemporanea del tragico. Se la morte di Ofelia oscilla fra squallore e lirica pietà, quella di Polonio è ridicola, con uno scarto inatteso dal pathos allorché il suo corpo barcollante ricade sul juke-box accendendolo, con una musica che cambia repentinamente il tono. Il che non dovrebbe scandalizzare gli spettatori che conoscono bene il testo, poiché anche Shakespeare aveva inserito un anti-climax alla sua morte, facendo pronunciare ad Amleto un arguto gioco di parole mentre ne trascina fuori il cadavere (azione che desumiamo appunto dal pun e dalla conoscenza della pratica scenica elisabettiana). Insomma, di certo Jemmet è capace di riscrivere in chiave contemporanea la complessa dialettica fra tragico e comico in Shakespeare, che traspone in un linguaggio smaccatamente pop, quasi fumettistico. Se è vero che indulge in modo forse eccessivo sul versante comico-farsesco, riesce tuttavia a rivelare l’impossibilità del sublime tragico per collocarne altrove il senso: nell’insistenza quasi beckettiana sul versante ridicolo del dolore, nella vacuità del tutto, nell’insensatezza e casualità delle azioni, e soprattutto, nell’assenza di una catarsi finale, ovvero nella drammaticità senza riscatto di un infinito tragico quotidiano.