La luna di carta di Montalbano

di Enrico Piergiacomi

Il genere giallo è spesso superficialmente considerato come un innocuo e banale esponente della letteratura di consumo. Si ritiene che il suo unico fine sia quello di divertire la mente del lettore, solleticandola quel tanto che basta per coinvolgerla in una serie di intrighi e in indagini misteriose, senza mai arrivare a offrirle uno stimolo alla conoscenza o alla riflessione. In realtà, una considerazione più accurata permette di capire che il giallo non nasce di per sé come forma di svago, e che un artista può ricorrere a questo genere letterario per fare poesia. Vale a dire, come vuole l’etimologia greca della parola (poiéō: costruire, creare a partire da qualcosa di preesistente), per attingere ai fatti della vita con l’intento di rimodellarli  in qualcosa di nuovo, che permetterà di osservare il mondo da una prospettiva diversa e forse di comprenderlo un po’ di più.

La rielaborazione drammaturgica del romanzo La luna di carta di Camilleri – andato in scena in prima assoluta presso il Teatro Stabile del Giallo di Roma dal 12 febbraio al 13 marzo 2013 – ci ricorda queste piccole verità, rendendo evidente quanto poetico sia l’universo in cui si muove il commissario Montalbano e quali inedite prospettive sia in grado di aprire.
I fatti della vita a cui l’opera e il suo adattamento attingono sono sinteticamente tre: un affare di droga, un amore infelice e una vendetta violenta. Essi sono desunti con consapevole realismo dagli avvenimenti della cronaca nera di Sicilia e vengono trasposti nella trama attraverso l’indagine di Montalbano sulla morte dell’informatore medico-scientifico Angelo Pardo. In breve, il commissario scopre, da un lato, che quest’uomo è rimasto coinvolto in un traffico di droga, dal quale sperava di ricavare i soldi necessari per saldare alcuni debiti di gioco d’azzardo e acquistare alcuni costosi regali, con cui mantenere la stanca relazione amorosa con la bella Elena Sclafani e emanciparsi dall’affetto morboso della sorella Michela, che si suiciderà misteriosamente poco prima della conclusione. Dall’altro, Montalbano rileva che l’uomo ha trovato la morte per il desiderio di vendetta di qualcuno, di cui però Camilleri non rivela mai l’identità. Egli infatti lascia irrisolto se Angelo è stato ucciso: 1) dalla sorella Michela, che stando alla ricostruzione di Elena, compiuta nel finale dell’opera, intendeva vendicarsi del suo tentativo di allontanarsi da lei; 2) dalla stessa Elena, che potrebbe aver deciso di troncare col sangue la loro relazione ed essersi inventata tutto per vendicarsi a sua volta di Michela – nel corso della vicenda, quest’ultima cerca di incolparla del delitto e di punirla per aver distrutto una precedente relazione sentimentale del fratello; 3) da un sicario della mafia, che intendeva liberarsi di Angelo per nascondere le conseguenze a cui il traffico di droga aveva portato (ovvero, al decesso di alcuni potenti senatori e politici cocainomani). Lungi dall’essere un espediente per creare un facile scioglimento, tale finale non fa altro che portare fino in fondo l’istanza poetica innanzitutto realista di Camilleri: perché è proprio nella vita che tante controversie restano irrisolte.
Questi elementi reali vengono trasposti a livello poetico attraverso due procedimenti. In primo luogo, essi vengono presentati come avvenimenti che Montalbano usa per distrarsi dal pensiero della morte. Il romanzo mostra, infatti, il personaggio come un uomo di mezza età che indaga sulla morte di Angelo per non pensare alla propria, dunque per sconfiggere la morte attraverso la morte stessa. Questo aspetto è valorizzato dalla regia di Bigai in maniera radicale, ossia presentando le indagini di Montalbano come avvenute in sogno. Non a caso, il sipario si apre nel momento in cui lo spettatore viene a sapere da una voce registrata che il commissario si era svegliato dieci minuti prima del suonare della sveglia. In un certo senso, allora, tutto il movimento dei personaggi sulla scena può essere considerato come l’esito di un fantasticare, a cui la memoria di Montalbano indulge in quel breve lasso di tempo che lo separa del completo risveglio e per scacciare il limpido quanto crudele pensiero «quannu vene il jorno de la tò morti».
Tale interpretazione ha il merito innanzitutto di rendere conto in maniera coerente di diverse scelte registiche di Bigai. Per esempio, essa spiega perché nell’adattamento de La luna di carta gli avvenimenti passino molto velocemente, al punto che una mattinata trascorre in pochi secondi. Oppure perché sulla scena i personaggi ora facciano concretamente, ora agiscano come ombre che si allungano, si dilatano, si ingigantiscono e si accorciano sulla scia delle loro emozioni – un effetto che gli attori ottengono recitando dietro due pannelli, collocati ai lati del palco e fortemente illuminati –, ora siano alternativamente trattenuti e inviatati ad entrare in scena da Montalbano. Il motivo risiede nel fatto che i tempi, gli spazi e i personaggi non sono quelli della realtà (o meglio, di quella che per abitudine ci ostiniamo a chiamare tale), ma appunto quelli capricciosi, incogruenti e vitali del sogno. Montalbano decide a piacere se far o meno recitare i personaggi nelle sue visioni oniriche e viene a sua volta spinto a non abbandonare la vicenda sognata, ma a continuare a farla vivere, esattamente come il capocomico dei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, un testo molto caro tanto alla regista Bigai quanto allo scrittore Camilleri (che dedicò al poeta siciliano il libro Biografia del figlio cambiato). Seppure sia dunque vero che tutto ciò che avviene sulla scena è assolutamente realistico, è pure altrettanto vero che si tratta di un realismo che giunge al cuore della realtà e rivela come funzioni la memoria attraverso volute deformazioni. Non è un caso che il lavoro di Bigai sia stato fortemente ispirato dalla pittrice Georgia O’Keeffe, che ebbe modo di dire: «Niente è meno realistico del Realismo. È solo per selezione, enfasi o elisione, che si può giungere al vero significato delle cose».
In secondo luogo, la mia interpretazione offre una rilettura interessante del finale aporetico dell’opera. Si potrebbe dire che lo spettatore resta all’oscuro della verità perché il sogno non è riuscito a dispiegarsi del tutto, perché il fantasticare è stato bruscamente interrotto dal suono improvviso e squillante della sveglia. La luna di carta è dunque un’opera rimasta segretamente incompiuta, e che aspetta ancora che un altro sognatore giunga a completarla per placare le ansie della veglia.
Il secondo procedimento mediante cui Camilleri rende poetico il piano realistico è l’aver messo al centro il rapporto di Montalbano verso Elena e Michela. L’indagine del commissario rischia a più riprese di interrompersi e giunge ad un esito aporetico proprio a causa dei discorsi spesso menzogneri delle due donne. Quale prove evidenti, adduco il fatto che la sua attrazione per Michela lo porta a non prevedere in anticipo il suo suicidio, precludendo ulteriori indagini sul suo coinvolgimento nella morte di Angelo, e che il fascino di Elena lo porta ad accontentarsi della storia che essa imbastisce. I volti di entrambe lo spingono quindi a tornare bambino e alla stessa ingenuità che provava il giorno in cui – dice esplicitamente Camilleri – il padre gli raccontò che la luna è fatta di carta. Poiché Elena e Michela sono le sue sole tracce per trovare la verità, diventa possibile inferire che Montalbano fallisce nel trovare una soluzione all’omicidio perché agisce come un viandante che si trova a vagare in una notte oscura, usando come unico punto di riferimento un astro incapace di illuminare la via, al contrario di quello reale. In Camilleri, dunque, la forte base realistica risulta finalizzata a illustrare a livello poetico che la donna è dotata del magico potere di mostrarci che la realtà è fragile e labile come una luna ritagliata su carta, sempre sul punto da sconfinare nel sogno o, come si è detto, a infrangersi nei giochi bizzarri della memoria. Sul piano registico della Bigai, quest’ultima dimensione è ottenuta sulla scena concertando con grande cura i momenti in cui Montalbano perde il controllo guardando gli occhi di Michela (tenuti con grande raffinatezza spesso chiusi dall’attrice che la interpreta) e ai vestiti sempre accesi o seducenti della bella Elena, così come mostrando che il prosieguo delle indagini è per gran parte compiuto non da lui, ma dai suoi collaboratori – il vice Fazio e il poliziotto Catarella.
Da questa rappresentazione della donna, si dovrebbe forse concludere che l’intento di Camilleri e di Bigai è quello di mostrare Montalbano come perdente? Sul piano della realtà, la risposta è senz’altro affermativa, perché la sua compromissione con le due donne determina sia il suo fallimento come investigatore, sia la morte di Michela. Tuttavia, sul piano della memoria e della poesia, credo che vi siano ragioni per sostenere il contrario. Attraverso i ricordi della dormiveglia, Montalbano arriva infatti a trasformarsi, da un uomo di mezza età angosciato dalla morte, in un adulto bambino, ossia in un essere che investiga i gravi problemi che si affacciano con la maturità attraverso la freschezza ancora intellettualmente pura della giovinezza. In altri termini, La luna di carta rappresentata da Bigai diventa una parabola che dipinge il ritratto di un uomo superiore: un uomo che mantiene cioè al tempo stesso la fresca ingenuità dei sensi del fanciullo e l’alta consapevolezza intellettuale che si raggiunge con la vecchiaia. Un uomo che – per usare altre parole ancora e recuperando un’ultima suggestione dell’opera – cerca di risolvere un delitto ascoltando le onde del mare, che fanno bimbescamente «Schaff! Glo glo glo…», portando via con sé i tragici pensieri sulla morte che si annidano come detriti nella memoria.