Tutto e niente in Rafael Spregelburd

di Enrico Piergiacomi

Tutto è la nuova opera scenica di Rafael Spregelburd, insignito per due volte del Premio Ubu per la drammaturgia straniera. È stata rappresentata venerdì 25 gennaio in prima assoluta presso il Teatro alla Cartiera di Rovereto dalla giovane compagnia Evoè!Teatro, diretta dal regista Alessio Nardin, e sarà replicata nel Teatro Aurora di Mestre il 31 gennaio. 

Più che un articolato testo drammaturgico, l’opera si caratterizza – afferma lo stesso autore – come una successione tre di fabulae morali. Ciascuna di loro pone allo spettatore un quesito molto attuale, che viene proiettato sullo sfondo del palcoscenico e posto ancora più esplicitamente dal comportamento dei personaggi sulla scena. La prima fabula chiede «Perché tutto nello Stato diventa burocrazia?» e denuncia la povertà delle logiche burocratiche che spingono quattro colleghi di un ufficio a perseguitarsi tra loro durante una discussione intorno al valore effettivo di una giacca. La seconda domanda, «Perché tutta l’Arte diventa commercio?», mostrando la vicenda di un artista che scopre come ogni gesto può essere ricondotto a un banale profitto economico, compreso quello di bruciare in pubblico i libri di filosofia di suo cognato Del Monico, il cui significato artistico viene da lui difeso con coraggio e buoni argomenti durante una cena di Natale. La terza fabula sollecita infine a pensare al «Perché tutta la Religione diventa superstizione?» attraverso la rappresentazione del litigio di una coppia di sposi ebre intorno al problema se sia sensato benedire o meno la macchina per augurare la salute del loro bambino malato. A dare unità al tutto sono solo pochi oggetti fissi (due tavoli e tre sedie), alcuni elementi audiovisivi ricorrenti (per esempio, l’Inno di Mameli cantato in playback) e naturalmente gli attori. I quali però cambiano quasi sempre di identità o di posizione, contribuendo a dare all’opera l’impressione di voluta frammentarietà.

La scelta della triade di domande dipende dalla chiara volontà di colpire l’ideologia hegeliana, che si impernia appunto sullo sviluppo dialettico dei tre valori sunnominati e che domina ancora la mentalità dei contemporanei, con la sua incrollabile fiducia nel progresso dello spirito umano verso un costante perfezionamento. Non a caso, la seconda fabula allude a questo universo concettuale concentrando un’impietosa attenzione al personaggio di Del Monico, che seduce e approfitta sessualmente delle alunne del suo Liceo sfoggiando il suo libercolo Hegel entra in classe. Spregelburd sembra evidenziare che l’accettazione dei valori di Stato, Arte e Religione scatena conflitti che culminano facilmente in un esito tragico e da cui gli uomini non riescono a districarsi, perché troppo condizionati dal linguaggio e dalla prospettiva che tali valori portano con sé. Così, accade che la discussione di stampo burocratico sul valore della giacca, la difesa del significato artistico dell’atto di bruciare i libri e il litigio della coppia di sposi portino rispettivamente all’incendio dell’ufficio, alla rottura definitiva della famiglia di Del Monico e a un tremendo attacco di panico della moglie. Si viene così portati a pensare che Stato, Arte e Religione non sono manifestazioni spirituali mediante cui un popolo prende hegelianamente coscienza e identità di sé, bensì simboli che arrivano a minare il benessere degli individui concreti che lo compongo. Ancora meglio, si viene portati a poco a poco a concludere che le parole Stato, Arte e Religione promuovono in realtà l’autodistruzione dei valori che intendono veicolare (ordine, libertà, serenità) e che gli uomini arrivano con l’hegelismo ad un «punto cieco dove le parole agonizzano», come dice il personaggio di Dai Chi nella seconda fabula. E poiché l’essere dell’uomo sta tutto nelle parole, si giunge infine a concludere che noi uomini non valiamo niente, o – per dirla con l’esistenzialismo – che la vita umana sia il nostro proprio nulla.

Per evitare di sconfinare nella speculazione pura o nella riflessione sulla natura del linguaggio, a cui il testo di Spregelburd comunque si presta, il regista ha avuto la brillante idea di ricondurre Tutto al discorso politico italiano. Il mezzo più palese è stato quello di far cantare l’incipit dell’Inno di Mameli prima dell’inizio della prima fabula e durante il passaggio alla seconda. L’operazione registica pare avere il senso di mostrare come l’Italia abbia smarrito il significato autentico dei valori di Stato, di Arte, di Religione, arrivando de facto a sostituirli con i surrogati di Burocrazia, Commercio e Superstizione.

Se si limitasse però a quanto detto, la regia di Tutto non risulterebbe troppo meritevole di essere studiata. Dopotutto, l’attacco al tacito hegelismo contemporaneo potrebbe essere benissimo condotto meglio attraverso strumenti diversi della drammaturgia, in particolare tramite un trattato filosofico o un lucido programma politico. L’originalità del lavoro di Nardin risiede invece nell’aver saputo muovere l’attacco mediante un raffinato gioco teatrale. La denuncia dello Stato che rende tutto burocrazia è stata per esempio ottenuta attraverso un uso sapiente del corpo degli attori, che dando l’impressione di trasportare, bruciare e lavorare con oggetti invisibili (soldi, fascicoli, scatoloni, ecc.) hanno mostrato simbolicamente come un’entità burocratica sorregga il proprio funzionamento su cose prive di consistenza reale. A volte, Nardin e la sua compagnia sono riusciti persino a restituire importanza alle parole ridotte oggi a meri surrogati. Penso a tal riguardo alla fabula sulla Religione, dove si individuano del resto le scelte più ardite e belle del regista. Invece che seguire le indicazioni del testo di Spregelburd, che segnala all’attrice di recitare fisicamente il forte attacco di panico facendosi il segno della croce, Nardin lo ha sostituito con l’atto di denudarsi e cadere sul lato sinistro del palcoscenico. Questo gesto ha per accidente il risultato di mostrare come anche la superstizione possa continuare ad assolvere la funzione rassicurante e nobilitante della religione. Infatti, il nudo della donna spingerà il marito a denudarsi a sua volta per rasserenare la compagna, ossia a trovare una forma più intensa di solidarietà della coppia di fronte alla malattia del figlio. Più in generale, comunque, è nel banale atto di mettere in scena la seconda fabula che questo aspetto emerge con chiarezza. I personaggi di questa fabula rivelano la pochezza dell’arte e della parola solo in apparenza, in quanto promuovono questo stesso messaggio proprio attraverso l’arte e la parola, e quindi in realtà non fanno altro che compiere una paradossale dimostrazione della grandezza di entrambe. Riflettendo su sé stessa, l’arte evidenzia i suoi limiti ma anche i suoi innegabili poteri.

La seconda e la terza fabula cosi interpretate mostrano dunque che in Tutto di Spregelburd le parole non giungono ad un «punto cieco» dove «agonizzano» necessariamente per morire, potendo anche arrivarvi per superare uno stato di crisi e risorgere di nuova vita. Questo permette a sua volta di inferire che si può parlare del nulla dell’esistenza e mostrare come esso sia comunque importante e significativo. In altre parole, ad un livello più profondo, quale è quello veicolato dalla resa registica di Nardin, Tutto mostra di avere sia l’intento di muovere una critica feroce all’ingenuità idealistica, che la segreta vocazione di mandare in cortocircuito ogni prematura deriva nell’esistenzialismo. La povertà della condizione umana può così essere riconsiderata piuttosto come il punto di partenza per affermare una posizione di illuminato eudaimonismo.