Le donne e l’eterno dramma della guerra: in scena un’originale rivisitazione delle Troiane di Euripide

di Cristina Pepe

Ilio “dalle belle mura” è caduta per mano dei Greci: distruzione e saccheggio regnano ormai sulla sacra rocca di Troia, avvolta dalle fiamme. Dalle macerie si leva il grido di dolore delle donne Troiane: piangono la morte di figli e mariti, e, prigioniere, attendono di conoscere il loro destino di profughe e schiave. 

Troiane racconta le atrocità e gli orrori della guerra dal punto di vista dei vinti: la tragedia, che Euripide rappresentava nel 415 a.C., all'indomani della distruzione della città di Milo da parte di Atene, rivive oggi, a distanza di oltre due millenni, nell’originale versione portata in scena dalla compagnia del Teatro Stabile di Bolzano, con la regia di Marco Bernardi.

Poseidone e Atena (impersonate, rispettivamente, da Carlo Simoni e Valentina Capone), aprono e chiudono la pièce. Le due divinità appaiono ai lati del palcoscenico, indossando vesti di un bianco accecante, simili a statue marmoree, e con gli attributi dell’iconografia antica. Poseidone, per primo, elenca con rammarico le sventure di Troia, di Ecuba e dei suoi figli. Poi prende la parola Atena, lanciando una maledizione contro i Greci, suoi protetti, eppur colpevoli di aver profanato il suo tempio: essi saranno costretti a subire terribili fatiche prima di riuscire ad approdare ai lidi patri. L’apparizione degli dei ci conduce nella dimensione senza tempo del mito, lì dove il destino è già scritto. Ed è un destino di dolore e morte, che accomuna vincitori e vinti.

In uno scenario di solitaria devastazione – al centro una tenda militare in cui giacciono incatenate le donne troiane,sullo sfondo, proiettate da un video, scorrono le immagini delle rovine fumanti della città – prende avvio la vicenda narrata dal dramma. Su un suolo cosparso di pietre nere, sacchi di sabbia e assi di legno, si muovono, sfilando una dopo l’altra, le protagoniste: Ecuba, Cassandra, Andromaca ed Elena. Si parte con Ecuba (la bravissima Patrizia Milani), un tempo non lontano regina di Troia, ora schiava ricoperta di stracci e sopraffatta dal dolore per la perdita del marito Priamo e dei suoi figli. Al lamento per la propria terribile sorte – è infatti stata assegnata ad Ulisse, il più perfido dei Greci, l’autore dell’inganno – Ecuba accosta le urla strazianti per il tragico destino dell’intero popolo troiano che si sta consumando davanti ai suoi occhi. Sulla scena irrompe quindi Cassandra, che vaticina sciagure per i capi Greci. Nei panni di Cassandra, la giovane Gaia Insegna offre un’interpretazione travolgente del delirio, della mania profetica di cui è preda la sacerdotessa di Apollo. È poi la volta di Andromaca (interpretata da Sara Bertelà), che appare legata ad un carrello per il trasporto delle merci e indossa, evocando una prigioniera di Guantanamo, una tuta arancione. Ad attenderla, infelice, ci sarà la più agghiacciante e intollerabile delle sentenze: i Greci hanno deciso di uccidere il figlioletto Astianatte, facendolo precipitare dalle mura, per evitare che un giorno il bambino possa vendicare il padre Ettore e la stirpe troiana. Il clima di strazio e sconforto è improvvisamente interrotto dall’ingresso in scena di Elena (Valentina Bardi), il cui look moderno ed esuberante – minigonna, parrucca bionda ed occhiali da sole – crea un deciso contrasto con l’aspetto di Ecuba e delle troiane, avvolte in vesti lacere e con il capo velato. Elena è rappresentata come una donna dissoluta e ammaliatrice, impegnata nel tentativo di sedurre Menelao (Riccardo Zini) e di sfuggire al suo desiderio di vendetta. Il palcoscenico si trasforma così in un tribunale in cui Ecuba ed Elena si fronteggiano per stabilire le responsabilità dello scoppio della guerra. In questo agone verbale dal sapore dialettico-sofistico, elemento ricorrente nella drammaturgia euripidea, Ecuba persuade Menelao, marito e giudice, a punire le colpe della donna che lo ha tradito e che, attratta dal lusso e dall’adulterio, è fuggita con Paride. È la vittoria di una regina che ha perso tutto e che pure, con un estremo sussulto di orgoglio, dimostra di non voler rinunciare all’onore e alla giustizia per ilsuo popolo.

Alle donne troiane resta soltanto il tempo piangere sulle spoglie di Astianatte: il momento della deportazione ormai incombe. A dare l’ordine sarà Taltibio, unico altro personaggio maschile della tragedia, messaggero dei Greci nel campo nemico. Quello interpretato da Corrado d’Elia è un Taltibio cinico e sprezzante che, nel corso del dramma, manifesta fredda arroganza e sadico piacere nell’annunciare le infauste decisioni dei vincitori. Dalla parte dei vinti, partecipe del loro dolore, c’è invece il coro la cui voce è affidata a due figure femminili (Valentina Morini e Karoline Comarella). La scelta di sacrificare i due semicori di donne troiane, presenti nell’originale greco, attira tutta l’attenzione dello spettatore sulle eroine protagoniste, che, benché piegate dalla disperazione, campeggiano sul palco mostrando di non voler rinunciare alla loro dignità.

La costruzione registica di Bernardi gioca su un continuo intreccio tra passato e presente. Sulla ripresa piuttosto fedele del testo di Euripide, nella traduzione curata da Caterina Barone, s’innestano squarci della nostra contemporaneità: dai costumi – quelli di Andromaca ed Elena, come si è detto, ma anche quello dei conquistatori Greci vestiti in tuta mimetica come soldati Marines – agli interventi in video-proiezione che creano una sovrapposizione tra la cronaca contemporanea e quanto sta accadendo sulla scena. Questo legame tra il mito e la storia, tra il mondo antico e il mondo in cui viviamo, ci ricorda che la guerra è sempre identica, che identico è il dolore provocato dai conflitti armati, e che uno stesso atroce destino accomuna tutte le donne dei popoli sconfitti.