Il teatro antico è ancora oggi un formidabile repertorio di simboli, immagini e temi. La sua presenza è pervasiva e capillare nell’immaginario europeo (e non solo europeo), come testimoniano la fortuna inesauribile e la continua riattualizzazione dei miti di Edipo o Antigone, Prometeo o Medea, Oreste o Fedra. Secondo una prospettiva ormai secolare, i grandi temi del vivere civile vengono ancora oggi affrontati facendo riferimento agli archetipi (veri o presunti) fissati dalla tragedia greca: il conflitto tra i diritti dello stato e quelli dell’individuo, le dinamiche del potere, i problemi della cittadinanza, della giustizia o della guerra, la dialettica fra identità e alterità, inclusione ed esclusione. Anche singoli episodi della contemporaneità vengono rappresentati tramite lo specchio della tragedia. Basti pensare, per limitarsi a un solo esempio, a come l’immaginario e le figure del teatro greco sono state riutilizzate, in forma più o meno didascalica, per ripensare i termini della guerra civile jugoslava negli anni ‘90 del XX secolo: da Medea 1995 del croato Leo Katunaric alla riscrittura teatral-cinematografica dei Sette contro Tebe di Eschilo, tragedia ambientata in una città sotto assedio, che il regista Mario Martone ha trasferito nella bosniaca Sarajevo. Lo stesso Martone, peraltro, al teatro Stabile di Napoli ospita nel 2007 la drammaturgia Il verdetto di Valeria Parrella, dove la figura tragica dell’Agamennone eschileo si reincarna in quella di un boss della camorra napoletana.
D’altra parte, è evidente come la riscrittura del mito tragico abbia assunto nell’età contemporanea una dimensione problematica che rovescia, spesso consapevolmente, valori e paradigmi fissati da un canone secolare. L’esemplarità del discorso tragico viene ritrovata sempre più non nella sua capacità di delineare leggi etiche universali, oppure cosmiche e onnicomprensive teologie, ma nel suo aderire alla fragilità dell’umano, nell’anteporre a ciò che è assoluto ciò che è irrisolto. A ridefinire lo statuto dell’eroe tragico nella contemporaneità hanno contribuito numerosi fenomeni che si sono delineati a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. In primo luogo, la scissione tra la nozione di “antico” e quella di “classico”, per cui si è acquisita la nozione che la stessa antichità poteva essere riletta in funzione anticlassica e, almeno potenzialmente, eversiva, non solo sul piano estetico (cf. M. Vegetti, Classico e antico, in Di fronte ai classici, a cura di I. Dionigi, Milano, 2002). E’ una scissione evidente, per esempio, nella riflessione di Friedrich Nietzsche, la cui influenza sulla cultura novecentesca è stata decisiva. Ma presente anche nella riflessione psicanalitica che, fin dalla sua germinale relazione con la tragedia greca attraverso l’idea freudiana del “complesso di Edipo”, ha sempre implicato, nelle sue diverse scuole, da Jung a Hillman a Lacan, le figure del mito tragico. Ciò ha contribuito ulteriormente a trasformare le figure delle tragedie da paradigmi di un canone estetico o morale in veicoli simbolici della dimensione più oscura e problematica dell’umano.
La persistenza del dramma greco nella cultura novecentesca è evidente già nella quantità impressionante e nella molteplice varietà di accenti delle riscritture teatrali che esso ha generato (come ebbe modo di scrivere George Steiner in La Morte della tragedia, «qualsiasi repertorio del teatro tragico contemporaneo sembra un manuale di miti greci»). Ma la tragedia greca non è solo un archetipo: essa è anche il frutto di una lunga tradizione storica e intellettuale. I temi e le figure della tragedia che, talvolta in vesti dissimulate o ingannevoli, punteggiano il paesaggio della cultura novecentesca, non possono essere studiate solo in quanto fonti e modelli, secondo una prospettiva verticale e puramente genealogica. L’antico va inteso non come semplice eredità quanto piuttosto come prodotto, perpetuamente rinnovato, di una costruzione dinamica in cui il ricevente, i moderni, figurano come soggetto attivo e non solo passivo (cf. G. B. Conte, Identità storica e confronto culturale: dieci punti sulla tradizione umanistica europea, in «Lexis» 18, 2000). Non ci si può dunque limitare a valutare la più o meno diretta dipendenza dei singoli testi dai modelli letterari antichi, ma piuttosto considerare la maniera in cui la cultura novecentesca ha reinventato e riplasmato, entro le sue proprie coordinate storico-culturali, le figure e i motivi della tragedia.
In questo più generale contesto vanno affrontate le messinscene della tragedia greca nel Novecento. E’ questo un capitolo relativamente nuovo nella storia degli studi e che richiede ancora di essere affrontato con la dovuta compiutezza. Limitandosi all’Italia, si pensi a come sia ancora largamente inesplorata la storia di un’istituzione come l’Istituto Nazionale del Dramma Antico, in cui pure si condensano momenti fondamentali per la persistenza dell’antico nella cultura contemporanea: dalle germinali esperienze proto-novecentesche di Ettore Romagnoli alla memorabile Orestea di Pier Paolo Pasolini e Vittorio Gassman (1960). Non meno ricco di spunti e complesso è l’approccio alla grande tradizione della commedia antica. I servi sciocchi, i vecchi misantropi, i soldati vanagloriosi, le peripezie, i fraintendimenti e i riconoscimenti che sono caratteristici della commedia greca hanno rappresentato per secoli gli stereotipi della comicità, dagli antichi romani al varietà televisivo.
Questo sito ambisce dunque a essere un repertorio generale del teatro antico e della sue molteplici sopravvivenze e rinascite. Un punto di riferimento per studiosi, ricercatori, uomini di teatro, studenti universitari e liceali o semplici appassionati del dramma antico.
Immagini
- Maria Callas in Medea, regia di Pier Paolo Pasolini (1969)
- Jean-Auguste-Dominique Ingres, Edipo e la Sfinge (1808-1827)
- Lawrence Alma Tadema, La morte di Ippolito (1860)
- Alexandre Cabanel, Fedra (1880)