L’Ippia minore secondo Ziolko e Wahlöö. Un gioco serissimo

PlatonPlatina
Spettacolo ispirato all'Ippia minore di Platone

Idea e interpreti: Annikki Wahlöö (Stoccolma), Alicja Ziolko (Oslo) 
Drammaturgo e video maker: Hector Eguia (Messico / Stoccolma)
Allenatore di dialogo: Grete Sneltvedt (Åland Isles)

Visto al Circolo Scandivano di Roma il 30 dicembre 2018

di Enrico Piergiacomi

I dialoghi di Platone sono testi per loro natura sfuggenti e colmi di contraddizioni. Due paradossi risultano essere però forse più evidenti e, al tempo stesso, più stimolanti di altri. Da un lato, i dialoghi platonici sono testi teatrali che attaccano la fascinazione del teatro, che Platone considera dannosa e pericolosa. Basta guardare ai libri II, III e X della Repubblica per capire che la tragedia era interpretata dal filosofo come una fonte di passioni estreme che avrebbero messo a rischio la coesione sociale. Infatti, guardando per esempio Afrodite che fa impazzire Fedra per vendicarsi del mancato culto di Ippolito, un contemporaneo di Platone poteva ritenersi giustificato a sua volta a vendicarsi con ira di coloro da cui aveva ricevuto un torto, perché una dea aveva fatto lo stesso. Ci troviamo insomma di fronte a un teatro che sabota il teatro stesso. Dall’altro lato, Platone afferma nel Fedro che la scrittura in senso lato è solo un “gioco”, che non sostituisce il confronto tra due interlocutori che discutono dal vivo di un problema. Ora, poiché anche i dialoghi sono dei testi, ne segue che questi sono per loro natura “giocosi” e poco significativi. Ciò è, di nuovo, una conclusione paradossale. Molti dialoghi affrontano questioni centrali e serissime, come la definizione della giustizia, l’identificazione del corretto modo di pregare gli dèi, o ancora la questione di che cosa sia la conoscenza, per cui suona strano vederli definiti quasi come dei giochi per adulti-bambini.
Le attrici Anniki Wahlöö e Alicja Ziolko (d’ora in poi richiamate con gli acronimi A.W. e A.Z.) esplorano con il loro spettacolo PlatonPlatina questi due paradossi insiti nella scrittura platonica. Il lavoro – ancora in fase di studio – è una messa in scena fedele di tutto il dialogo Ippia minore, che mostra il sofista Ippia di Elide e il filosofo Socrate mentre discutono di una materia a prima vista frivola: se sia “migliore” o Achille che dice sempre la verità, o Ulisse che era un abile ingannatore. Questo contenuto ha decretato per secoli il carattere apparentemente marginale del dialogo. L’epiteto “minore” contrappone, infatti, il testo all’Ippia maggiore, che è dedicato alla ricerca della definizione del “bello” e, dunque, sembra essere un tema più filosofico. Studiare la bellezza pare infatti essere un’attività più nobile rispetto al decidere quale sia il personaggio omerico degno di maggiore considerazione morale.
Già la semplice scelta di A.W. e A.Z. di lavorare sull’Ippia minore basterebbe a giustificare la qualità del loro lavoro. Le due attrici riescono ad andare oltre alla superficie del testo e, decidendo di rappresentarlo, suggeriscono che questo dialogo va preso in considerazione non solo dagli specialisti di Platone. La discussione su chi sia migliore tra Achille e Ulisse si trasforma presto, infatti, in una questione molto meno oziosa e assai rilevante: chi è l’uomo buono o “migliore”? Quello che dice sempre la verità e mai il falso, o quello che può mentire e dunque deviare dal vero? Nel dialogo con Ippia, Socrate mette in dubbio la risposta che sia necessariamente corretta la prima ipotesi, sollevando così uno sciame di altre questioni difficili che, alla fine, avranno esito fallimentare. Se è vero che l’uomo buono sa che cosa sono il bene e il male, allora egli saprà anche commettere volontariamente atti malvagi, dunque risulterà migliore rispetto a chi ignora che cosa sia la malvagità (e può allora commetterla solo involontariamente), il che è un assurdo. Il ragionamento porta del resto alla logica conclusione che, più si è sapienti e buoni, più si diventa capaci di cattiverie e nefandezze. Ma dal momento che una tale soluzione non soddisfa né Socrate né Ippia, il dialogo si chiude con un finale aperto: non siamo riusciti a scoprire chi sia l’uomo buono, sicché in futuro dovremo riflettere di nuovo al riguardo ed evitare queste conclusioni contraddittorie. A.W. e A.Z. vanno insomma apprezzate perché portano alla conoscenza del grande pubblico un testo poco noto ed erroneamente ritenuto secondario. L’Ippia minore non è affatto un testo “minore”.
Esistono però altri aspetti di PlatonPlatina che meritano di essere rilevati e che, ad avviso di chi scrive, colgono con intelligenza alcune caratteristiche chiave del dialogo. Il seguito del testo cercherà di enuclearne tre.
Anzitutto, PlatonPlatina mette in evidenza è che non si può comprendere pienamente la complessità di un dialogo platonico se non lo si mette in scena, un po’ come non si può capire (poniamo) lo Zia Vanja di Cechov senza portarlo sul palcoscenico. Alcuni elementi dei testi drammatici non emergono, infatti, alla semplice lettura o all’analisi contenutistica, ma si manifestano con chiarezza allo spettatore che lo vede a teatro. Non mi riferisco tanto al ritmo della prosa, alle pause o ai silenzi che sospendono l’andamento altrimenti fluido del dialogo, o ancora alle azioni fisiche compiute dai personaggi di Ippia e Socrate, perché queste sono cose che un lettore attento può ricostruire tra le pieghe del testo. Alludo più specificamente alla relazione formale che lega Socrate ed Ippia, ossia al “non-detto” dell’Ippia minore e che solo un attore può tentare di evocare. Infatti, che rapporto lega i due personaggi? Essi sono in conflitto tra loro, o stanno collaborando? Qual è lo scopo che anima Ippia nella discussione e quale quello di Socrate? E ancora, perché i personaggi reagiscono in una determinata maniera alle battute dell’altro? Tutte queste domande restano senza risposta per lo studioso che si concentra solo sulle argomentazioni filosofiche. A.W. e A.Z. riescono invece a dare qualche proposta di soluzione, provando a vedere a cosa mirino le battute dei personaggi e come andrebbero pronunciate. Le due attrici riescono, così facendo, ad appurare che, forse, sia Socrate che Ippia sono interessati a risolvere il problema morale su cui si trovano a riflettere e che, se di tanto in tanto essi si trovano in tensione, ciò non accade perché c’è un conflitto irrisolto tra loro. Entrambi i personaggi sono semmai del tutto calati nella riflessione, dunque le loro reazioni negative spesso dipendono dal fatto che il ragionamento non riesce a trovare uno sbocco risolutivo. La conclusione impedisce alla radice di abbracciare la lettura semplicistica del dialogo che vuole che Ippia sia un sofista che vuole primeggiare su Socrate, presentandolo invece come un attivo collaboratore nella ricerca di una corretta definizione dell’uomo buono, così come delle nozioni stesse di verità e menzogna.
Queste considerazioni rendono poi meno oscuro il primo dei due paradossi da cui si era partiti. A.W. e A.Z. sottolineano che Platone non è banalmente un filosofo che attaccava il teatro. Egli è uno scrittore teatrale che sfrutta la forma drammatica del dialogo per mostrare che a essere importanti non sono solo i contenuti dell’indagine, ma anche i modi in cui questa viene impostata e la relazione che lega i due dialoganti. In questo senso, ciò che viene criticato nella Repubblica non è tanto la fascinazione del teatro e la sua capacità di accendere le passioni cattive degli esseri umani, quanto l’uso sbagliato che se ne fa. Si può infatti pensare a un tipo di drammaturgia teatrale che non desta negli spettatori ira e desiderio di vendetta, bensì che accende un amore genuino per la conoscenza. L’Ippia minore rappresenta un esempio di questo buon tipo di teatro. Lo spettatore che vede Ippia e Socrate in dialogo sincero viene spronato a interrogarsi a sua volta su che cosa significhi essere un uomo migliore, vale a dire a cercare la soluzione al problema che il testo non riesce a fornire.
Un secondo aspetto di PlatonPlatina che può essere messo in luce è il carattere comico dell’Ippia minore. Dietro l’apparente seriosità, il dialogo si mostra essere come un testo divertente: o meglio, come una discussione che affronta il problema complesso del rapporto verità/menzogna in maniera piacevole e leggera. Ecco risolto così il secondo dei due apparenti paradossi della scrittura platonica. Non c’è nulla di contraddittorio nel qualificare l’Ippia minore come un gioco che affronta un problema filosofico serio. È anzi proprio questa buona mescolanza di giocosità e serietà che fa sì che il lettore o lo spettatore partecipino attivamente alla discussione in atto. Se il gioco fosse solo una successione di cretinerie, che non ambiscono ad alcun fine serio, esso verrebbe presto abbandonato perché verrebbe rapidamente a noia. Di contro, un tema serio affrontato in modo pesante diventa alle lunghe intollerabile e viene abbandonato anche degli spiriti più innamorati del sapere. La mescolanza di gioco e serietà tempera invece i due eccessi, permettendo alle persone coinvolte di perdurare nella ricerca.
Una scelta felice che A.W. e A.Z. compiono per esprimere la dimensione sia ludica che seria dell’Ippia minore è quella di ambientare il dialogo in un campo di badminton. Ippia e Socrate si scambiano, oltre alle battute del testo, anche alcuni scambi appunto in una partita di badminton, che li tengono impegnati fisicamente – oltre che mentalmente – nell’indagine in corso. Ciò comunica allo spettatore che i due dialoganti ricavano fatica ma anche piacere dalla loro ricerca, ossia appunto che essi stanno giocando con un obiettivo serio in testa. C’è dunque una dimensione ludica nell’indagine filosofica e una componente giocosa nella filosofia. Il teatro è l’elemento che riesce a tenere insieme queste due dimensioni solo in apparenza inconciliabili: una sorta di cerchio magico che serra i due opposti in reciproca armonia.
Il terzo e ultimo elemento di PlatonPlatina che vorrei enfatizzare è figlio delle riflessioni che precedono. A.W. e A.Z. usano il gioco del teatro per creare nello spettatore una sorta di effetto di “straniamento” e invitare a non fermarsi alla semplice lettera del testo. Le due attrici recitano l’Ippia minore con l’intento di manifestare gli avvenimenti principali che hanno luogo nel dialogo, che non necessariamente coincidono con l’esposizione di una tesi definita. Quello che è più importante generare attraverso il testo platonico è lo stimolo nello spettatore a prendere posizione, chiedendosi se difendere Ippia, che afferma che la menzogna (involontaria o volontaria) non può mai albergare nell’uomo buono, o abbracciare le posizioni di Socrate, che difende l’equazione della virtù con la scienza (= potrò fare il bene solo se saprò cosa è il bene), o se sono possibili altre vie.
Mi limito a fornire un unico esempio. Dopo metà del dialogo con Socrate, che pone a Ippia una serie di insistenti domande a cui può rispondere solo con un “sì” o un “no”, il personaggio interrompe la discussione e si abbandona a un monologo. Egli si lamenta che l’interrogazione socratica non porta da nessuna parte. Essa si concentra sulle parole che vengono usate, ossia su “migliore”, “volontario” e “sapiente”, perdendo però di vista il quadro generale della situazione e portando così a intraprendere un percorso di studio miope, destinato a fallire. Gli studiosi che si concentrano sulla dimensione esclusivamente contenutistica dell’Ippia minore sono propensi a considerare irrilevante il monologo, o al massimo a soffermarsi su questo per mostrare l’estraneità di Ippia dal metodo di ricerca di Socrate. Invece, PlatonPlatina riesce a far vedere che si tratta di un momento importante del dialogo, forse addirittura uno dei suoi avvenimenti principali e su cui lo spettatore è chiamato riflettere. Ippia sta infatti mettendo in guardia in anticipo lo spettatore che la tesi dell’equazione socratica della virtù con la scienza porterà di lì a poco a un impasse, che lascerà lo stesso Socrate insoddisfatto e deluso. Ciò non significa necessariamente dire che il metodo socratico sia sbagliato. Si può anche pensare che qualche suo assunto di base ha bisogno di essere rivisto, o ancora che l’equazione della virtù con la scienza aiuta solo in parte a definire chi sia l’uomo buono. Lo spettatore è insomma chiamato a intervenire e riflettere, nella speranza che riesca a evitare una nuova caduta nell’errore.
L’Ippia minore è in conclusione straniante in un duplice senso. Esso problematizza l’intuizione del senso comune (e di Ippia all’inizio del testo) che vuole che l’uomo buono dica sempre la verità, sottolineando che un tale individuo deve in qualche modo essere un sapiente. Nello stesso tempo, il dialogo non nasconde i limiti dell’equazione socratica di virtù e scienza, che porta a conseguenze troppo assurde da risultare vere, in particolare l’idea che la sapienza del bene e del male accresce il potere di compiere malvagità. Né Ippia né Socrate sembrano insomma detenere una verità sicura. È lo spettatore che deve cercarla, a costo di intraprendere dei percorsi di ricerca che i due personaggi non hanno preso finora in considerazione.
Molte altre cose potrebbero essere dette in margine sia al testo platonico, sia a PlatonPlatina. Conviene tuttavia interrompersi qui e trarre almeno la conclusione provvisoria che A.W. e A.Z. ricordano che il teatro dei dialoghi di Platone è un gioco serissimo. Esso è il luogo in cui lo spettatore è preso da grandi ansie morali e al contempo dagli intensi piaceri dell’intelligenza.