Morganti e i "Canti orfici". Perché si canta, quando si canta?

I CANTI (estratti dai Canti Orfici di Dino Campana)
Regia di Claudio Morganti
Con Claudio Morganti
assistenza drammaturgica e tecnica Rita Frongia
organizzazione Adriana Vignali

prima nazionale Festival Armunia -Castiglioncello 24 giugno 2015

Visto al Teatro "La Scuderia" di Monte San Vito

di Enrico Piergiacomi

L’espressione Canti Orfici che dà il titolo alla raccolta di versi e prose poetiche di Dino Campana si caratterizza per un fatto: unisce una parola molto facile con un’altra estremamente difficile. Provocatoriamente, sostengo che quella meno complessa sia apparentemente quella più oscura ed ermetica, ossia l’aggettivo “orfico”. Se abbozziamo alla buona una storia del termine, infatti, noteremo che gli Orfici erano coloro che, «figli della terra e del cielo stellato» (per citare una formula delle laminette orfiche di Turi), lasciano con l’iniziazione mistica le miserie terrestri per volare alla loro patria celeste. Campana qualifica con “Orfico”, dunque, una poesia che apre un percorso iniziatico, dove poeta e lettori/ascoltatori sono portati a purificarsi da ciò che è mortale e a rinascere immortali.
La parola estremamente difficile è invece “canto”. Che significa, in fondo, cantare? Da dove sorge la necessità di abbandonare il linguaggio consueto, comprensibile e codificato, per farsi puro suono ed eco di qualcosa di inafferrabile? Si canta per felicità, per disperazione, per una rara mescolanza delle due cose? È vero che, come racconta la leggenda dello stesso Orfeo, il canto può portare a resuscitare i morti? O al contrario, esso nasce quando qualcosa dentro di noi muore e se ne sente la nostalgia? E il canto che ha luogo a teatro è diverso o identico rispetto al canto del musicista, del poeta che scrive, del bambino che gioca, della rondine che si dice porti la primavera, e via dicendo? Queste sono solo alcune delle molteplici domande essenziali e senza risposta, forse anzi impossibili da risolvere. Da Tespi a Carmelo Bene e oltre si è sempre cantato a teatro: ma perché lo si è fatto, e con quali effetti sul mondo o su questa povera cosa che è l’umanità, si è sempre fallito nello scoprirlo, malgrado i molti e sinceri tentativi.
La lettura dei Canti Orfici di Claudio Morganti si situa sulla scia di questa tradizione e prova, a sua volta, un magnifico fallimento in un compito piccolo, ma estremo: leggere questi versi e prose poetiche nella speranza che da essi si sprigioni un canto speciale, che apporti… che cosa? Appunto, non lo sappiamo. Ma proprio per questo si tenta di evocarlo, perché si sprigioni qualcosa di forse mai udito, né da umani né da dèi. Parlando il linguaggio di tutti i giorni, si sa cosa trovare e comunicare. Col canto del teatro, ci si avventura nell’ignoto, senza sapere in anticipo cosa si scoprirà.
In questa prospettiva si annida un potenziale pericolo. Poiché non sappiamo cosa Morganti o altri troveranno, se lo troveranno, non possiamo escludere che forse essi arrivino a dischiudere qualcosa di terribile. Il canto potrebbe anche spalancare un inferno più mostruoso a quello a cui ci siamo adattati, invece che purezza e redenzione. Ma il rischio è bello e, se ne morremo, accoglieremo la morte con gioia. Un mistero si sarà dischiuso, e questo vale più di una vita lunga trascorsa nella quiete e nella sicurezza.