a cura di Carla Gubert
[Intervista pubblicata ora in Milo De Angelis, Colloqui sulla poesia, a cura di Isabella Vincentini, Milano, la Vita Felice, 2008]
C.G. Niebo in polacco significa cielo. Immagino sia un omaggio al poeta di Varsavia Boleslaw Lesmian, i cui versi sono rivolti sovente al "vuoto nel cielo" (come in L'anima nei cieli, tradotta sull'ultimo numero). Allo stesso tempo tu attribuisci alla parola niebo, nel sesto numero, una significazione più complessa: «Ancora una volta voglio ripetermi che il cielo non è la cupola della terra, ma è ciò che la terra non può sopportare e allontana da sé». Perché questo nome di battesimo per la nuova rivista?
M.D.A Quando ero al Liceo Berchet di Milano, il mio professore Francesco Leonetti, dirigente del gruppo maoista "Servire il popolo", dichiarò che in poesia bisognava abolire la parola "cielo". Proprio così, la parola "cielo". Ero solo un ragazzo, ma sentivo che, se una creatura impoetica come Leonetti voleva abolirla, avrebbe potuto diventare la mia. A quella parola cominciai così ad affezionarmi. Nello stesso periodo l'ho ritrovata nei poeti che stavo leggendo: Osip Mandel'stam (nieba) e poi in quel geniale e sconosciuto poeta che era Boleslaw Lesmian (niebo). In entrambi i casi non si trattava di un cielo cattolico, di un cielo come regno da abitare, bensì di quel tempo assoluto che si manifesta in piena contingenza, che irrompe nel cortile di una scuola, nel passo di un gatto, nello scarico di un lavandino. Tutto cominciò dunque in quegli anni: causa remota. La causa prossima è che nel 1976 passai l'inverno a Varsavia (quartiere Ochota, Casa dello studente) per studiare Lesmian. Quando tornai a Milano, il nome della rivista fu inevitabile: «Niebo».
«Niebo» nasce in un momento storico cruciale (il primo numero è del giugno 1977), sul finire di un decennio cupo, caratterizzato da una ideologia che nel suo fanatismo più acceso conduce al lutto e al terrore (l'assassinio di Aldo Moro è del 1978). La poesia, parafrasando alcuni versi di Giuseppe Conte, era una dea in esilio il cui sogno di ritornare doveva essere "indomabile"?
Bellissimi versi, quelli di Giuseppe Conte! La poesia è davvero indomabile! Trova vie segrete per venire alla luce e sfida, magari senza nemmeno saperlo, tutti i poteri culturali, che in quegli anni erano davvero cupi, come hai notato, convinti che l'uomo fosse riducibile alla sua sfera sociale. Eppure, proprio allora cominciavano a farsi conoscere due esperienze, quella di Cristina Campo e quella di Marina Cvetaeva, interamente estranee allo spirito dei tempi e vicine semmai al sogno di «Niebo».
Da chi era composta la redazione? Come e da chi venivano decisi i temi e gli autori ai quali dedicare i fascicoli? Quale era la tiratura? Come e dove veniva diffusa la rivista?
Quelli più presenti alle riunioni di «Niebo» (che erano aperte a tutti e si svolgevano ogni lunedì sera in Via Rosales 9, dove allora abitavo) furono Emi Rabuffetti, Antonio Mungai, Ivano Fermini, Alberto Schieppati, Giancarlo Pontiggia, Cesare Lievi, Marta Bertamini e Roberto Mussapi. Con loro si decideva, dopo avere discusso i testi ricevuti, come sarebbe stato il numero seguente. Che usciva in mille copie, con abbonati e presentazioni anche fuori Milano. Nascevano così incontri e contatti, inviti, scambi di lettere e opinioni.
In una recente intervista, Roberto Mussapi ha dichiarato di essersi allora avvicinato al gruppo milanese perché «la rivista sviluppava in modo chiaro, forte e diretto un discorso che ridimensionava la cultura sperimentale del Gruppo '63 divenuta ormai fine a se stessa, che dominava la poesia italiana negli anni Settanta». Come venne accolta la nuova pubblicazione dagli intellettuali legati alla neoavanguardia?
La neoavanguardia in quegli anni stava esaurendo la sua vitalità, già modesta in partenza. E a noi comunque non interessava, nemmeno come nemica. L'unico rapporto, bello e fruttuoso, fu con Antonio Porta, che stava uscendo da quella esperienza e che partecipò a varie riunioni della rivista. Elio Pagliarani aveva già scritto le sue cose migliori negli anni Sessanta e come poeta era scomparso, affogato in un mare di chiacchiere. Non c'era poi nessuna stima per Balestrini, Giuliani e Sanguineti. Con quest'ultimo, che era e rimane una specie di commissario del popolo, abbiamo anche avuto un contrasto a Genova, quando ci chiamò "pericolosi discepoli dell'esistenzialismo". Non male però come definizione, devo ammetterlo.
Hai scritto alcuni testi teorici importanti su «Altri Termini» di Franco Cavallo, rivista partenopea legata ad un discorso avanguardista, seppur con una libertà di movimento maggiore per quegli scrittori non allineati con l'ideologia dominante. Anche Giuseppe Conte inizia a pubblicare in tale sede. Esiste un filo conduttore tra questa esperienza e la futura rivista?
Su «Altri Termini», nei primi anni Settanta, uscì un mio scritto intitolato La gioia di Hegel, dove si mescolavano temi esistenzialisti a temi orientali. Piacque a Giuseppe Conte, che mi scrisse. Da lì un lungo scambio di lettere e una lunga serie di incontri, l'inizio di una grande amicizia.
Nel testo programmatico che chiude il primo numero viene messa in rilievo la dimensione europea della rivista, la volontà di indagare le linee di una lirica fondata sullo "svelamento" e non sulla "fondazione" di un linguaggio poetico. I richiami sono a Trakl, Lesmian, Benn, Hölderlin, Bonnefoy ma anche Lucrezio, tutti scrittori legati in qualche modo al mito, alla fiaba o anche ad un certo animismo. Credi che nel corso dei tre anni si siano realizzati pienamente questi presupposti?
L'idea di "svelamento" era una idea centrale di «Niebo», ripetuta in molte forme e situazioni. Si riagganciava alla tensione romantica della rivista, alla visione di un mondo già popolato di forze e di miti, che il poeta doveva scoprire. O meglio, che il poeta doveva tradurre, cioè scoprire con rigore.
Alla fiaba, sia europea che orientale, vengono dedicati ben due numeri monografici. Che corrispondenza si materializzava tra favola e poesia secondo i giovani autori di «Niebo»?
C'è una netta distinzione, agli occhi di «Niebo», tra favola e fiaba. La prima rappresenta il versante pedagogico, da Fedro a La Fontaine a Gianni Rodari, con tanto di morale acclusa. La fiaba invece è il mondo inventivo e folle, incantato e visionario, che non tira mai le conclusioni. La fiaba è Andersen, Basile, Lesmian, insomma gli autori di «Niebo».
In quegli anni stavi traducendo L'attente, l'oubli di Maurice Blanchot, uscito per Guanda nel 1978. Quale influenza ha avuto sul gruppo di via Rosales lo scrittore francese, in particolare sull'idea di un tempo «senza presente», inattuale, immobile, al di fuori di un reale Erlebnis, dove il mito (inteso come immutabilità circolare) entra prepotentemente nel tessuto della poesia e alla parola viene affidata la parte rituale, il compito di mettere ordine nel mutabile, nell'umano?
Blanchot ha accompagnato tutta l'avventura di «Niebo», dall'inizio alla fine. Lontano da ogni storicismo, non al passo con i tempi, prossimo a Nietzsche, aveva mille ragioni per affascinarci. E infatti alcuni interventi critici gli sono debitori. Più tardi, quando la rivista volgeva al termine, ne abbiamo colto anche i limiti: un certo contenutismo, la tendenza a leggere i poeti in senso filosofico, a non soffermarsi più di tanto sulle singole scelte espressive, su quei dettagli che danno guizzo, luce, suono, scatto alla poesia.
Secondo alcuni critici (recentemente Francesco Napoli in Novecento prossimo venturo, 2005) Milo De Angelis, Giuseppe Conte e Roberto Mussapi sarebbero gli artefici, nel panorama poetico contemporaneo, di una "terza via" alternativa dopo la strada tracciata dal Gruppo '63 e quella che prolunga lo sperimentalismo realistico-sociale di Pasolini e «Officina» (più un quarto punto cardinale, sempre presente nel secondo dopoguerra, ovvero la "linea lombarda" di Raboni, Majorino, Neri e altri). Questa "terza via" è stata definita ancora una volta, impropriamente, "neo-orfismo". Cosa ne pensi?
Spesso la critica cerca analogie tra poeti che hanno fatto insieme una rivista, hanno vissuto negli stessi luoghi, hanno condiviso una certa idea di poesia. Nulla di più errato. Le analogie sono imprevedibili. La poesia di Sanguineti è lontana da quella di Pagliarani, la poesia di Pasolini è lontanissima da quella di Fortini. Non c'è nessuna linea lombarda. Cucchi è nato dalle parti di Federigo Tozzi, Raboni è più prossimo a Luzi che a Luciano Erba, come Neri è più vicino a Magrelli che a Majorino. Mussapi è estraneo ai miei versi come a quelli di Conte, e semmai si accosta a Bonnefoy o a Bigongiari, ne condivide lo sguardo poematico e luminoso. Conte è figlio di Lawrence e D'annunzio, ma ha anche un sotterraneo rapporto con l'avanguardia ed è comunque quell'esperienza unica e feconda che ha nome Giuseppe Conte.
Nello sfogliare la rivista, ci si accorge anno dopo anno della vita editoriale piuttosto discontinua che la caratterizza: periodicità variabile, da trimestrale a quadrimestrale, cambiamenti nella direzione, numeri monografici annunciati e poi disattesi.... Quali sono state le difficoltà nel dirigere una rivista letteraria alla fine degli anni Settanta?
L'andatura discontinua, il passo sbilanciato erano inevitabili e persino essenziali a una rivista come «Niebo», così consegnata alla passione poetica e ai suoi vortici, estranea per scelta a ogni sicurezza, compresa quella di trovare i soldi per il numero successivo. Ma voglio aggiungere qualcosa che non è mai stato detto. «Niebo», certo, era una rivista controcorrente, in aperta polemica con lo spirito del periodo, di quegli slogan e di quella visione politica della vita. E tuttavia era pur sempre una rivista degli anni Settanta. Ogni riunione era aperta a tutti. Era esposta ai venti della storia, e voleva rimanerlo. Ogni lunedì sera, per tre anni, si incontravano persone e gruppi di tutti i generi, persone venute lì da Milano e da fuori a parlare con noi. «Niebo» era compatta nelle sue idee essenziali, ma non voleva chiudersi alla folla, all'assemblea, all'agorà, al confronto pubblico tra posizioni contrastanti. E ognuno di noi ricorda quel discutere serrato, fino a tarda notte, nella mansarda di Via Rosales, l'ultimo tram perso, i ragazzi che dormivano lì, il caffè all'alba, e insomma una dimensione di comunità, di bohème e di giovinezza che era propria di quegli anni e che noi abbiamo percorso con tutte le forze della nostra poesia e della nostra vita.
giugno 2007