Alcune considerazioni sul Macbeth di Branciaroli

Alcune considerazioni sul Macbeth di Branciarolidi Thomas Capone

Teatro Sociale di Trento, Novembre 2016
Regia di Franco Branciaroli per il Teatro degli Incamminati

Sembra che pochi attori, dovendo caratterizzare il protagonista del Macbeth, se ne siano accorti, ma il comandate Scozzese dopo l’uccisione del Re Duncan, afferma di essere l’assassino del sonno e quindi di non voler dormire più («Glamis hath murderd sleep, and therefore Cadwor»: II, 2). Franco Branciaroli nota questa sfumatura e riesce a dare al personaggio una presenza da sonnambulo. Verso la fine dello spettacolo, Macbeth entra in scena con un cuscino e recita un monologo sdraiato.

Nell’ultimo grande combattimento il protagonista rimane seduto sui gradini aspettando l’arrivo degli avversari, sconfitto più dal sonno che non da Macduff. Un’altra caratteristica molto spesso poco rimarcata, e invece sottolineata in questa messa in scena, è lo strano rapporto di genere che si crea tra Macbeth e sua moglie: di fatto non solo Lady Macbeth mostra chiari comportamenti maschili, ma mette anche in forte discussione la virilità del marito («When you durst do it, then you were a man»: II, 7). Oltre a questi indizi testuali, credo che Branciaroli abbia preso in considerazione la riscrittura shakespeariana del suo maestro e amico Giovanni Testori, il Macbetto, dove vi è un continuo rimando a queste tematiche. Macbetto (1974) fa parte della celebre Trilogia degli Scarrozzanti che Testori scrisse dal 1972 al 1977 e comprende anche Ambleto (1972) e Edipus (1977). In vari punti del Macbetto viene palesata questa duplice natura sessuale molto ambigua dei due sposi. Questa doppiezza è stata resa presentando i due coniugi in maniera contrapposta, infatti, Lady Macbeth è resa, dalla performance della giovane Valentina Violo, ponendo attenzione a dare al personaggio una forte sicurezza di sé sia a livello vocale che gestuale, mentre Macbeth viene mostrato come un grande depresso. Branciaroli passa così da momenti di un fervore quasi infantile ad altri in cui ci mostra i lati più sensibili e tristi del personaggio. C’è una scena abbastanza interessante nello spettacolo, dove Lady Macbeth accarezza la testa del marito poggiata sul suo petto, un semplice gesto che fa capire molto sui rapporti che intercorrono tra i due personaggi, con i ruoli chiaramente invertiti: il valente condottiero scozzese perde il suo ruolo di militare e nobile diventando quasi un bambino in cerca di conforto.

La scenografia è all’apparenza molto semplice, poiché la scena si presenta come una costruzione di praticabili neri senza alcuna particolarità, se non la presenza di vari gradini, che vengono utilizzati in modo funzionale per mostrare, attraverso la prossemica, i rapporti che intercorrono tra i personaggi. Questo vago castello nero, oltre a indicare che in Shakespeare il luogo viene evocato attraverso la parola piuttosto che mostrato direttamente sul palco, in realtà rimanda anche alla caduta nel mondo infernale che i due protagonisti compiono. Discesa che vede nei suoi punti cruciali l’uccisione di chi simbolicamente occupa, nel Macbeth, il posto di Dio, cioè il Re. Non a caso Branciaroli sceglie di rendere Duncan, recitato da Giovanni Battista Storti, come una figura circondata da un’aura divina. Tuttavia questa divinità viene più mostrata attraverso un fascio di luce gialla che incontra il costume di Duncan che non attraverso i modi del Re, che appaiono abbastanza prosaici, facendo capire che non è la persona in discussione quanto la sua figura simbolica di Padre. Se prima le vesti di Lady e Lord Macbeth erano rossi, dopo la loro incoronazione uniscono al rosso una stoffa gialla, a simboleggiare che pur avendo ottenuto la corona non l’hanno fatto in maniera legittima. Durante l’incontro con le streghe, c’è una frase molto particolare che Branciaroli ha posto in rilievo, in cui Macbeth apostrofa le tre incantatrici con l’appellativo di “parlatrici imperfette” («Stay, you imperfect speakers! Tell me more!»: I, 3). Per far risaltare meglio questa differenza, il regista ha deciso di far parlare le tre streghe in un inglese fantasioso. La lingua astrusa, unita al fatto che i maschi recitavano la parte e alle inquietanti maschere, dava alle streghe l’aspetto di veri e propri daimon. Creature duali che segnano il confine dei mondi, tra comico e tragico, vita e morte, maschio e femmina. Tuttavia, nella messa in scena di Branciaroli, l’inglese non è parlato solo dalle streghe, ma anche da Lady Macbeth in alcuni monologhi. Oltre a essere un escamotage per far apprezzare i versi shakespeariani in tutto il loro fascino ritmico ed estetico, questa scelta pone Lady Macbeth in connessione con le streghe. Legame abbastanza interessante visti i richiami alla magia oscura fatti da Lady Macbeth, in particolare nella famosa invocazione degli spiriti del male («Come, you spirits/ that tend on mortal thoughts»: I, 5). Per segnalare ancora meglio questa sua particolare natura, proprio nel soliloquio degli spiriti sopra citato, Valentina Violo compie una simbolica eucarestia, ponendo su un calice il “sangue” e la “carne” proveniente dal suo seno e dal suo basso ventre. Non a caso anche nel Macbetto di Testori Ledi Macbet pronuncia delle parole che si potrebbero legare concettualmente a questa scena: «La strìa dise / che sarèm re e reina / E che, al contrario di Cristo / Da vuomini diventarèm divini». Oltre a porre l’accento ciò che Lady Macbeth stava dicendo, quest’atto d’inversa transustanziazione si pone in netta continuità con il caos morale che i due coniugi causeranno, creando un mondo dove “il brutto è il bello e il bello è brutto”(«Fair is foul, and foul is fair»: I, 1). Un’altra scelta forte di Branciaroli è stata quella di rinunciare all’utilizzo della musica, quest’assenza ha un forte impatto sullo spettatore, che si ritrova così maggiormente a contattato con il mondo assurdo e svuotato da ogni bellezza dove Macbeth vive. Esiste, credo, una ragione più profonda per il rifiuto alla musica e sta nel fatto che solo la parola può rivelare, in Shakespeare, una così profonda spaccatura morale. Forse la chiave di volta per (s) velare quest’atipica messa in scena sta in ciò che Testori scrive nel saggio il ventre del teatro (1968):«Il luogo in cui il teatro è vero teatro, non è quello scenico, ma quello verbale, e risiede in una specifica, buia e fulgida, qualità carnale e motoria della parola» .