La guerra nella guerra. A proposito delle Voci nella tempesta di Elena Marino

La guerra nella guerra. A proposito delle Voci nella tempesta di Elena Marinodi Enrico Piergiacomi

Bolzano, Teatro Comunale, 20 febbraio 2015

Il centenario della Grande Guerra che si è cominciato a commemorare nel 2014 ha portato alla produzione di alcuni spettacoli teatrali direttamente ispirati a questo evento. Tra i più riusciti e i meno retorici di questi lavori spicca Voci nella tempesta di Elena Marino, che ha debuttato il 20 febbraio 2015, con la regia di Elena Marino e l’interpretazione di Silvia Furlan, Silvia Libardi, Chiara Superbi.

La “tempesta” che viene raccontata sulla scena è appunto la Grande Guerra, mentre le “voci” sono le parole di tre donne costrette a lasciare la loro terra, le quali raccontano le loro storie di quotidiana sopravvivenza e di difesa della propria dignità, in un paese che con il conflitto era collassato in un caos inumano. Queste vicende sono ricostruite dalla Marino a partire dalle testimonianze autobiografiche di molte vecchie trentine, ma non costituiscono una banale e meccanica trasposizione scenica di un fatto storico. La regista compie, infatti, una loro trasfigurazione artistica e le rilegge con uno sguardo “militante”, ossia cerca di trovare le somiglianze che intercorrono tra il conflitto passato e la situazione presente. Le persone di oggi si trovano, come le donne di Voci della tempesta, in un contesto storico dove tutto è smembrato e si fa urgente il bisogno di ricostruire una società civile unita, ma soprattutto in cui le voci di molti sono soffocate dai grandi discorsi progressisti, edificanti, economico-politici, nonostante quelle siano molto più intense e sincere. Sarebbe comunque improprio pensare che la coincidenza tra i due soggetti sia assoluta. Marino mostra con il teatro che, al contrario delle persone di oggi che perlopiù urlano il proprio malcontento, le donne trentine di allora cantavano, per la fame e per la rabbia, cercando al contempo di vivere integralmente la loro esistenza, senza abbandonarsi sempre e soltanto al rimpianto o al tormento. Particolarmente bello si rivela, in tal senso, il momento dello spettacolo in cui le tre protagoniste decidono di festeggiare il carnevale, benché nella miseria più nera e nella condizione quasi bestiale in cui sono ridotte avrebbero poco da stare allegre. In questo loro comportamento si manifesta, del resto, un dissenso molto profondo: il dissenso di chi non vuole alimentare ancora di più la serietà della guerra, che è una delle cause che induce a considerare razionale il gesto di per sé folle di togliere la vita ad altri uomini e di distruggere in poco tempo molte comunità, grandi e piccole. Non sempre le tre donne si mostrano di parere concorde. Esse alternano sulla scena momenti in cui si comportano come un personaggio corale, per esempio quando raccontano la loro vita nel campo profughi (la cosiddetta “città di legno”), ricostruendo il luogo con alcune travi e descrivendo casi di ordinaria prevaricazione da parte degli austro-ungarici, ad altri in cui una di loro manifesta il suo punto di vista sul conflitto, che a volte entra in contrasto con quello delle altre. Più speranzosa è, ad esempio, la prospettiva della ragazza diciottenne, che sopporta con maggiore forza le difficoltà avendo di fronte a sé una vita lunga, rispetto a quella del personaggio della madre, che affronta il conflitto con la complicazione di dover garantire un poco di benessere anche ai figli. In tutte loro, emerge comunque in modo diverso un’idea importante, che guida tutta la poetica del racconto di Voci nella tempesta: meglio essere soldato che donna, perché quello deve combattere una guerra sola, mentre questa ne deve affrontare due. L’uno fronteggia solo quella armata e punta più a distruggere i nemici che a salvare i compatrioti. Di contro, l’altra affronta questa e una per così dire “spirituale”, ossia un conflitto in cui l’obiettivo è proteggere dal disastro collettivo la memoria del popolo, i valori condivisi e la necessità di tutelare alcuni confini precisi, per esempio quelli che tutelano l’intimità umana e la riflessione, che in battaglia risultano due spazi rari e privilegiati. La donna affronta dunque una guerra dentro la guerra, con il ruolo di angelo custode del passato, di guardiana del presente, di battipista del futuro. Il pregio principale del lavoro di Marino è, in conclusione, la volontà di dare voce ai “vinti” della storia, la quale, com’è noto, è scritta soprattutto dai vincitori. Ridà infatti voce alle donne della Grande Guerra – ma, volendo, di qualsiasi altro conflitto – che non hanno trovato espressione, perché le loro parole di indignazione si sono perse nel vento, o addirittura sono state coperte da violente forze esterne. Oggi queste voci risuonano delicate e imperiose nello stesso tempo, nonché più calde delle fredde armi degli uomini, che in battaglia hanno più spesso versato sangue innocente.