Misura per misura, occhio per occhio: l’impietoso e assurdo gioco del potere

Misura per misura, occhio per occhio: l’impietoso e assurdo gioco del poteredi Sandra Pietrini

È una commedia energica e violenta, quella ideata dal regista russo Declan Donnellan e portata in scena al Teatro Maria Guerrero di Madrid. Negli anni passati Donnellan si è confrontato con molti altri testi shakespeariani, con risultati originali e molto diversi fra loro. In Misura per Misura vede soprattutto un sadico teatro del potere e della sopraffazione, un gioco crudele di ruoli in cui il mondo maschile e il mondo femminile entrano in collisione. Tutto è affidato alla recitazione degli attori, poiché la messa in scena è estremamente sobria e parca: un tavolo, due sedie e cinque grandi cubi rossi, che in alcuni momenti vengono fatti ruotare per rivelare scene e personaggi al loro interno, fissi in un’attitudine emblematica che ne rappresenta quasi brechtianamente l’essenza. 

L’ipocrita Angelo, che ricorda un algido funzionario del polit-buro, cela dietro la maschera di impassibile tiranno inattese fragilità: è con patetico languore che bacia la sedia di Isabella dopo che questa se n’è andata addolorata, respinta nella sua supplica di una grazia per il fratello Claudio. Ed è con brama disperata che le bacia i piedi, risalendo alle gambe e finendo per mimare una violenza sessuale che costituisce per lui il solo modo di concepire la passione, quasi un surrogato dell’amore di cui non sarà mai capace (anche nel finale, quando si pentirà unendosi alla promessa sposa Marianna, resterà freddo e indifferente come un manichino). Il fatto che Angelo voglia punire il cedimento di Claudio alla tentazione dei sensi è presentato come la reazione a un peccato che egli stesso cova, a un’ossessione alla quale non sa resistere. Nel sottolineare questo aspetto, Donnellan non si discosta dal testo shakespeariano, ma ne porta alla luce alcuni aspetti, estremizzandoli fino al parossismo, mostrando appunto Angelo in preda a una passione fredda, che è solo ansia di dominio e desiderio di potere. Del resto, quasi tutti i personaggi maschili concepiscono il sesso come una forma di sopraffazione, come si può vedere in alcune fulminanti scene di violenza, dalle prostitute trascinate per i capelli e furiosamente possedute ai tentativi di stupro di Isabella, uno dei quali attuato addirittura dal fratello. Risiedono appunto in questa deriva di spiazzante brutalità le maggiori forzature interpretative rispetto al testo, partendo tuttavia da spunti in esso contenuti. Nella famosa scena in cui Isabella rivela al fratello l’unico modo per salvargli la vita – ovvero la proposta di Angelo di cedere alle sue brame – il sentimento di affetto reciproco si trasforma in uno scontro inconciliabile, che tracima infine in una strindberghiana lotta primordiale fra i sessi, con la connotazione di rude fisicità tipica di molti registi russi. La scena ripropone piuttosto fedelmente il testo shakespeariano: «la morte è una cosa spaventosa», afferma Claudio, finendo per chiedere alla sorella di sacrificare la sua verginità. Disgustata, Isabella lo definisce un codardo immorale e aggiunge: «Non è una specie di incesto, trarre vita dal disonore di tua sorella?» (It's not a kind of incest, to take life / From thine own sister's shame?»). Donnellan inventa a questo punto una scena particolarmente forte: Claudio reagisce cercando di violentare Isabella, finché non giungono a fermarlo. Prende dunque alla lettera la metafora dell’“incesto”, traducendola in azione concreta. Sembra volerci ricordare che, avulso dal contesto affettivo, l’impulso vitale non è altro che istinto di sopravvivenza, sessualità cieca e ripetizione di un copione, in cui le donne sono sempre le vittime e gli uomini i carnefici. L’amore è soltanto debolezza e il sesso un istinto violento; le femmine soffrono e si disperano, talvolta con accessi furiosi (come quando Isabella aggredisce fisicamente Angelo), mentre i maschi riversano spesso la loro libido, che è desiderio di sopraffazione, nell’ esercizio del potere. Questa lettura cupa e dicotomica del dramma è portata avanti con coerenza fino allo scioglimento finale, con sprazzi di falsa vitalità che emanano dai movimenti coreografici, come i movimenti marziali di gruppo che scandiscono la rappresentazione e il girotondo dei personaggi che accompagna l’evoluzione della trama mediante il tipico escamotage da commedia (la sostituzione di Marianna a Isabella nel letto di Angelo). I personaggi, vestiti con abiti contemporanei, somigliano un po’ tutti a dei morti viventi, a burattini manovrati da un dio crudele (e non solo i poliziotti e la guardia carceraria, che peraltro anche nel testo non è priva di iniziativa, poiché propone di portare ad Angelo la testa di un detenuto deceduto il giorno prima; anche gli anelli di trasmissione del potere possono trovare escamotage risolutivi). Quanto al duca, di certo non è poi così avveduto e lungimirante: affida la città in mano a un malfattore e quando infine riesce a ristabilire la verità e l’ordine si dimostra piuttosto insensibile nei confronti di Isabella, che fa inutilmente soffrire lasciandogli credere che il fratello sia morto solo per mettere alla prova la sua magnanimità. Qualità, peraltro, che egli non dimostra invece di possedere fino in fondo, visto che dopo aver perdonato tutti fa invece impiccare Lucio, reo di averlo calunniato (nel testo shakespeariano lo condanna a morte per giunta dopo averlo fatto frustare e sposare con una puttana). E propone a Isabella di sposarlo con la disinvolta freddezza di un commerciante che si accinge a un buon affare, con l’assertività sbrigativa di chi sa come deve andare a finire la storia. Tutto questo, a ben vedere, è già nel testo, e ne costituisce un elemento di debolezza drammatica, ma Donnellan  lo fa invece risaltare come parte integrante della sua interpretazione in chiave negativa di tutti i personaggi maschili. Il regista mette in scena davvero una dark comedy, la cui artificiosa risoluzione finale viene volutamente posta in rilievo. Nella maggior parte delle messe in scena del dramma, si preferisce sorvolare sullo scioglimento finale della trama, sfrondando la scena e facendola trascorrere rapidamente. Donnellan compie una scelta totalmente diversa e reinterpreta il finale, a partire dal ritorno trionfale del duca, come una sorta di ostentato show televisivo, con tanto di applausi e ovazioni di accompagnamento. Anche le due donne prendono la parola e, resistendo ai tentativi di soffocare la loro voce, riescono infine a rivelare la verità con l’aiuto del duca, regista occulto della trama, che entra ed esce con disinvoltura dal travestimento da frate. Ma diversamente che in altre rivisitazioni in chiave contemporanea (come quella di Gabriele Lavia del 2007), si tratta di un regista debole, capace a malapena di raddrizzare la piega presa dagli eventi e, soprattutto, poco saggio: a cosa è servito tanto dolore? Questo sembra voler sottolineare la sconcertante reazione di Isabella, che resta immota e sdegnosa di fronte alla sua proposta di matrimonio (artificiosa anche in Shakespeare), volgendogli le spalle dopo essersi precipitata a baciare i piedi del fratello, restituitole a sorpresa dal duca dopo averla indotta al perdono di Angelo. Ma con un risvolto originale di ulteriore crudeltà, Claudio non ha più occhi per lei e si volge ad abbracciare la sua sposa e il figlioletto ormai nato. Ancora un barlume di disperata e non corrisposta passione incestuosa, dunque, con una cinica sottolineatura dell’assurdità da deus ex machina degli accoppiamenti finali. E così il ballo finale delle coppie si tinge di colori lividi, come un'ennesima giostra insensata per illudersi di essere vivi e non soltanto delle marionette nel crudele teatrino del potere.