La voce di Stidduzzu. Follia e teatro in Carullo-Minasi

Delirio bizzarro
di e con Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi

scene e costumi Cinzia Muscolino
scenotecnica Pierino Botto
disegno luci Roberto Bonaventura
aiuto regia Veronica Zito, Eleonora Bovo
collaborazione artistica Ivana Parisi, Simone Carullo, Giovanna La Maestra
e con la collaborazione del Centro Diurno di Salute Mentale “Il Camelot”, del Teatro Vittorio Emanuele e della “Casa del Con”

Visto il 20 giugno 2018 a Il Funaro Centro Culturale

di Enrico Piergiacomi

C’è un testo molto caro al duo artistico di Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi che illumina il senso di ogni loro lavoro. Si tratta del breve ma densissimo saggio di Charles Baudelaire intitolato Morale del giocattolo, che elabora – senza purtroppo svilupparla sistematicamente – una teoria sula relazione tra il gioco e il comportamento. Sul finire del testo, il poeta accenna al fatto che molti bambini usano e smontano i loro giocattoli perché animati dalla «tentazione metafisica» di «vedere l’anima», che si suppone si annidi tra gli ingranaggi o le tessiture della bambola che hanno ricevuto in regalo. Può darsi che qualcosa di simile avvenga in ogni spettacolo di Carullo-Minasi, che del resto si compone spesso di elementi scenografici e di linguaggi che ricordano il mondo infantile. Il teatro costituisce per loro, forse, un gioco per smontare qualcosa e poterne vedere l’anima. Se l’ipotesi è corretta, lo studioso di Carullo-Minasi si deve chiedere: nel loro spettacolo Delirio bizzarro, si cerca l’anima di che cosa o di chi?

Una prima risposta può risiedere in una semplice constatazione. Delirio bizzarro è uno spettacolo che mette in scena un dialogo tra Mimmo e Sofia, ossia tra un pazzo e una “normale” operatrice sanitaria, entro le mura del Centro Diurno di Salute Mentale “Il Castello”: una sorta di terra di frontiera in cui salute e malattia si trovano sia a convivere, sia a confrontarsi. Dato il contesto, si potrebbe allora presumere che lo spettacolo vada alla ricerca dell’«anima» dei malati e dei sani, ovvero della loro differenza.

Questa prima e troppo facile risposta non tiene da conto, però, che quasi subito lo spettatore si accorge di quanto parole come “malattia” e “salute” indichino un’opposizione solo apparente. Mimmo manifesta nello spettacolo, infatti, dei comportamenti di assoluta ragionevolezza: sa di essere invalido mentalmente, si accorge delle proprietà nocive di un farmaco dal nome falsamente amichevole di “Psicobén” e sa distinguere le stelle del cielo, guardandole spesso con fare assorto e incantato. Di contro, Sofia attua atteggiamenti del tutto folli (mania dell’igiene, ossessivo desiderio per la carriera, e via dicendo), tanto che a un certo punto della vicenda si scopre persino che esiste una sua cartella clinica che descrive alcuni episodi di dissociazione dalla propria identità. Non sappiamo se la sua patologia sia ancora in atto, dunque se ella sia un altro paziente del Centro, oppure se i suoi attacchi siano ormai passati, ma non importa. Quel che è sicuro è che la distinzione tra un Mimmo malato e una Sofia sana viene meno perché entrambi sono affetti ugualmente da follia. Entrambi sono, per così dire, dei “diversamente matti”. Più in generale, il testo allude più volte al fatto che nemmeno coloro che vivono fuori dal Centro sembrano sfuggano alla follia, attuale o latente. «Tutti pazzi, tutti qua dentro. Macché i pazzi sono fuori», dice Sofia, dopo una conversazione con il direttore del Centro (il dottor Avallone), che ritiene sia assolutamente normale sanare il bilancio togliendo il rifornimento di cibo per l’istituto. Gli esseri umani "sani" sono anormali quanto i matti e ogni loro occupazione tradisce qualche bizzarria. Se sembrano in salute, è solo perché nessuno li vede dal di fuori e nessuno giudica, ridendo, il loro assurdo comportamento.
Posto che allora Delirio bizzarro allude a una condizione di follia generalizzata, può darsi che l’«anima» di cui lo spettacolo va in cerca si trovi altrove. La questione potrebbe essere posta nei termini che seguono. Carullo e Minasi sembrano chiedere con il loro «gioco» spettacolare: se la società è malata o folle, da dove deriva questa follia? In altri termini, come ha fatto l’anima dell’umanità a perdere il senno?

Mi pare che la questione così impostata possa ricavare dalla drammaturgia di Delirio bizzarro due possibili risposte. La prima è che la causa della follia possa risiedere nel deterioramento nelle relazioni tra esseri umani. In uno dei suoi attimi di lucidità, infatti, Sofia sottolinea che «la psichiatria non è una scienza del particolare (…). Qui si lavora sulle relazioni, le relazioni sono importanti: stare con l’altro mi cambia e se cambia uno che sta male, stare con l’altro è terapia». Ora, dal momento che le nostre relazioni sono viziate alla radice da una qualche forma di mania e di malattia, per esempio dalla ricerca del potere e del controllo assoluto, ogni nostro comportamento non fa che alimentare o generare la follia che è attiva o latente negli altri. Nessuno cerca veramente la “salute”, se col termine intendiamo la capacità di relazionarsi felicemente e fare retto uso della nostra razionalità, che mostrerebbe quanto la ricerca della potenza sia vana. E in questo scenario terribile, gli esseri umani diventano sempre più soli, perché ciascuno è rinchiuso nel suo piccolo mondo fatto di obiettivi superflui e meschini.
La seconda risposta alla domanda su quale sia la causa della mancanza di senno nell’umanità è complementare alla prima. Noi umani non ci rendiamo tendenzialmente conto di questa condizione di follia, come dimostra il fatto che si giudichi “normale” che la società / la realtà si basi secondo le dinamiche di prevaricazione che vediamo e accettiamo. Tornando al concetto della potenza, nessuno oggi direbbe che la ricerca e l’esercizio del potere che inquinano le nostre relazioni non stiano a fondamento di ogni dinamica sociale e culturale. Chi pensasse il contrario sarebbe un “folle” come Mimmo: uno che preferisce guardare le stelle e decifrarne la natura o il movimento, piuttosto che contribuire al progresso della società partecipando alla “sana” competizione che porta i vincitori alla ricchezza e alla potenza.

È entro questa ottica che va letto un ulteriore elemento decisivo della drammaturgia di Delirio bizzarro: quello del fatto che ciascuno di noi “recita” un ruolo nella vita. Sofia assume, infatti, la parte della donna in carriera proprio per nascondere il suo malessere interiore e, se la sua cartella clinica descrive una patologia ancora in atto, anche la sua follia. Lo stesso fanno presumibilmente la gran parte degli esseri umani, che attraversano la scena della vita come dei matti che cercano di occultare il fatto di essere malati. Anche Mimmo ama il teatro, certo, come dimostra il fatto che il suo ingresso in scena coincide con la richiesta a Sofia di poterle rappresentare o raccontare la vicenda di Stidduzzu: un folle che, nel 1908, rivelò – senza essere creduto – l'imminente maremoto che avrebbe colpito di lì a poco il paese di Pellaro, vicino Reggio Calabria, in concomitanza con il più noto terremoto di Messina. Ma si tratta di una forma di recitazione differente. Il teatro costituisce in fondo un’arte che può tanto nascondere qualcosa, quanto rivelare qualche verità su noi stessi. Sofia – e con lei la maggior parte degli esseri umani – pratica una recitazione del primo tipo, appunto perché tenta di nascondere con il proprio ruolo sociale la malattia di cui soffre. Mimmo coltiva invece un teatro “rivelativo”. La vicenda di Stidduzzu tanto amata dal personaggio non è altro, del resto, che un racconto che prova quanto i “folli” vedano più in profondità e in anticipo rispetto ai cosiddetti “sani”.
Una simile capacità conoscitiva e profetica è incarnata dallo stesso Mimmo, che potrebbe anzi essere definito un “secondo Stidduzzu”. Durante un suo confronto con Sofia, che coincide con uno dei suoi attimi di lucidità superiore, Mimmo afferma di aver capito, guardando le stelle, che ogni pianeta dell’universo infinito è afflitto dalla malattia e dalla solitudine. E se nessuna divinità salvatrice è mai venuta a rimediare, è forse perché è troppo impegnata a saltare da un astro all’altro e, dunque, non è al momento in grado di venire in nostro soccorso. Un’intuizione analoga l’avrà poi anche Sofia nel finale dello spettacolo, quando in un momento di follia comincerà a denudarsi del suo vestito e (metaforicamente) del suo ruolo, abbandonandosi a una visione apocalittica di un’umanità che puzza e che viene pulita, o purificata, da una gigantesca inondazione universale.

L’«anima» che il «gioco» di Delirio bizzarro cerca di far emergere è, in conclusione, quella di un’umanità malata, che può trovare la sua cura forse nel relazionarsi in modo autentico con gli altri e nell’abbandono di quelle vane competizioni che ci tengono sempre più lontani o soli. La strada della guarigione potrebbe essere trovata, inoltre, ascoltando le voci innocenti e profetiche dei folli come Stidduzzu o Mimmo, che ci avvertono della rovina imminente che potrebbe cadere da un momento all’altro sopra le nostre teste. A noi tutto sembra normale, sano e sicuro: ma si tratta solo di una grave illusione, la proverbiale quiete che prelude a una terribile tempesta.